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Doppio sospetto

Il sospetto, chi lo porta e chi lo riceve sono elementi fondanti di un qualunque thriller-giallo: costruire il sospetto, giustificarlo credibilmente, agirlo naturalmente, risolverlo organicamente è frutto di disciplina, arte ed intelligenza. Parimenti dicasi se lo si vuole ricreare tramite inquadrature. Lo ha insegnato Hitchcock al mondo, e, dopo lui, innumerevoli epigoni, più o meno innovatori, hanno proseguito, acuito, tecnicamente implementato il suo insegnamento, ma nessuno ha mai tradito uno degli aspetti basilari del sospetto, ossia la fiducia.

Su carta, su palco o su schermo, si crea un rapporto fiduciario tra chi mostra e chi riceve, per cui se c’è un’indagine, una necessità di ricostruire gli eventi, il sospetto che una verità possa celarne un’altra regge solo se esistono indizi espliciti o impliciti seminati o ricostruiti nel tragitto, univoci, pur nella loro ambiguità, diretti od indiretti in base al caso e allo stile, necessariamente presenti, provabili e rintracciabili, deducibili, al massimo intuibili, all’interno del percorso dato e tutti inerenti lo svelamento finale. Chi osserva lo sa e ci fa affidamento.

Doppio sospetto

Seguendoli si è portati a propendere per una versione dei fatti piuttosto che per un’altra: lettore, ascoltatore, spettatore si fidano che la soluzione esista tra i pezzi sparsi, accortamente elusi oppure evocati con tatto o con insidia, durante l’intero arco dell’opera. Se questo non accade o peggio accade male, se il bagaglio indiziario è falsato o relegato altrove, siamo di fronte ad uno squilibrio menzognero, ad una storpiatura del patto di fiducia, ad un molto rumore per nulla. La probabilità e la possibilità devono essere agli occhi di chi fruisce del sospetto plausibili, altrimenti dov’è il gusto di guardare o leggere, con cosa si appaga la curiosità, com’è ripagata la fiducia concessa? In poche parole: io ti credo, finchè me lo fai credere.

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Resta in quest’ambito il difetto principale riscontrato nel lussuoso adattamento cinematografico del romanzo di Barbara AbelDerriere la haine” da parte di Olivier Masset De passe, regista belga di razza, tra i semifinalisti all’Oscar per il miglior film straniero con Illegal del 2011, vincitore di ben nove premi Magritte con quest’ultima fatica. Per merito della sua mano raffinata si inietta nell’opera, alla maniera hitchcockiana, una fitta e mirabile rete di chiasmi scenici e dettagli di classe, cui si avvinghia una vicenda che gira su se stessa in equilibrio teso più o meno digeribile, in attesa spasmodica di atterrare: eppure quando lo fa non soddisfa le altissime aspettative leziosamente architettate.

L’azione è conchiusa tra due villette adiacenti: ci abitano Alice (Veerle Baetens) con suo figlio Teo e Celine (Anne Coesens) con suo figlio Maxime, entrambe sono sposate con mariti anonimi d’ordinanza, sono molto amiche e i rispettivi bambini giocano sempre insieme; la confidenza tra le due è reciproca al punto che ciascuna ha le chiavi di casa dell’altra. Per tragica fatalità, una mattina in cui è assente Celine, il piccolo Maxime precipita dalla sua finestra: Alice impegnata in giardino lo vede, cerca di salvarlo raggiungendo la casa della vicina il prima possibile, ma non ci riesce. Celine sembra incolpare l’amica di non aver fatto abbastanza, poi si calma, ma da quel tragico momento niente nella vita di Alice resta più al suo posto e lentamente il peggiore dei suoi sospetti prende forma.

Singolare l’ambientazione prescelta, ossia l’America degli anni 60, di cui di fatto, oltre ad un omaggio alle atmosfere care ad Hitchcock, non si comprende strettamente la necessità: la sua ricostruzione, infatti, è essenziale, quasi affrettata, affidata a macchine vintage, capelli alla Jackie Kennedy, tubini pastello, drink diffusi e donne casalinghe tutte casa, marito e figli, senza una vera occupazione che le porti oltre i ristretti orizzonti domestici. Così si consuma il doppio dramma, due donne, due case, due mariti, due figli, uno che non è più, l’altro re-esistente, unica ancora di salvezza troppo stretta per entrambe; dalla crudele incrinatura di una bella amicizia deriva una slavina di rovine silenziose e fatali: ci si stacca solo sul finale, elemento a sè stante, sorprendente ma non sufficientemente preparato, che lascia un po’ affamati, con l’annosa sensazione che ci sia più fumo che arrosto.

Al centro della contesa le madri, entrambe agiate, non proletarie, né in affanni economici, eppure incentrate sui figli, ricchezza principale per loro, oggetto che completa vite, soprattutto allora, e Celine che ha patito molto per aver il suo erede, lo perde. L’osmosi tra le amiche è tale, da rendere insopportabile che un lutto così grave possa essere affrontato da una sola di loro, soprattutto se si ravvisa la causa o la con-colpa della tragedia in una delle due. Ci si muove perciò tra piani diabolici immaginati, ma effettivamente man mano compiuti, decessi progressivi, sospetti smentiti e rinati ancor più forti, auto convincimenti non troppo deboli, impacciata civiltà borghese di facciata ed una condizione da difendere a tutti i costi, l’essere madre.

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Doppio sospetto

Di quest’ultimo bisogno disperato non si tocca una traccia profondamente convincente nel film; esso vive assodato dietro l’epoca e il ceto medio di riferimento, come fosse l’unico ed evidente modo di stare al mondo femminile: sono i figli a fare la felicità, non gli uomini né il resto del mondo, qui praticamente assente. Eppure la maternità negata, perduta, strappata, agognata è un innesco importante, se non il principale, per dare il la alla spirale vendicativa in questo contesto: ma di tale sentimento si parla poco e lo si vive ancor meno, fuor dalla non interessante routine. Non c’è, dunque, sufficiente evidenza nella sceneggiatura per un movente, invece, decisivo: in esso agile germoglierebbe il sospetto, mentre invece si tace, si lascia correre, preferendo sbilanciarsi su suggerimenti non portati a termine come quello di un tradimento coniugale, o di una trascorsa malattia mentale di Alice, o ancora di un ravvedimento, di un errore di valutazione, di un giudizio avventato, che sfida la verosimiglianza e la tenuta di un legittimo sospetto.

Il thriller vintage dall’aspetto sontuoso e raffinato, ma dalle dinamiche e dai contenuti meno ricchi di come appaiano, passa dall’azione alla psicologia, poi vi fa ritorno poi se ne riallontana, senza decidersi in modo definitivo, approdando ad una giustificazione finale che nella sua maestosità tematica e nettezza visiva, meritava ben altre pezze d’appoggio. Di questa asfissia di sviluppo soffre la sospensione di credulità dello spettatore, sbalestrato dall’eleganza, ma anche dal lento carburare dell’azione, dalle varie piste percorribili ma di fatto acquose, dai particolari amplificati che aggiungono bellezza, ma non informazioni, dal finale che non possiede la chimica di una reazione ben bilanciata.

Complice una certa recitazione non entusiasmante, dalla gittata corta, sempre troppo vicina o troppo distaccata dall’oggetto, non efficace allo scopo: fin dall’inizio, infatti, si passa dalle alte temperature tutte appannaggio esclusivo di Alice, all’interpretazione trattenutissima e liscia di Celine, che non lascia trapelare mai come si sente, frenando fortemente l’empatia.

Doppio sospetto

La regia e la fotografia sono esteticamente impeccabili, ma non aiutano ad alleggerire il disagio: ci si perde nel dettaglio di un’inquadratura due volte ripetuta identica, ma in situazione differente, in primi piani insistiti ed indulgenti che volutamente possono confondere, con tanta colonna sonora emotivamente schierata e dilagante, oppure in rimandi e citazioni colte, in pose manierate belle ma incapaci di trasmettere frequenza emotiva, come se in tutto ci fosse uno sguardo studiato e compassato che non scalda il cuore.

La tensione risultante è di qualità inferiore allo sfoggio di finezza registica, per cui, per quanti inchini gli si possano tributare, l’arte del sospetto, l’inquietudine concreta, l’equilibrio tematico-strutturale, la capacità di restituire visioni anche controverse dietro il mero incastro giallo-thirller-noir, capacità incontrovertibili del buon maestro Alfred, qui sono un bersaglio mancato.

PANORAMICA RECENSIONE

Regia
Soggetto e Sceneggiatura
Interpretazioni
Emozioni

SOMMARIO

Due madri ed una fatalità. Bisogno di maternità, amicizia femminile e vendetta in un thriller vintage belga, pluripremiato in patria, registicamente ambizioso, contenutisticamente appena sufficiente, a tratti fuori dalla sospensione di credibilità. Tanto stile, per altrettanto già visto. Un maldestro inchino all'ispiratore Hitchcock.
Pyndaro
Pyndaro
Cosa so fare: osservare, immaginare, collegare, girare l’angolo  Cosa non so fare: smettere di scrivere  Cosa mangio: interpunzioni e tutta l’arte in genere  Cosa amo: i quadri che non cerchiano, e viceversa.  Cosa penso: il cinema gioca con le immagini; io con le parole. Dovevamo incontrarci prima o poi.

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