Un non-tempo e un non-luogo, una stasi personale che attraverso i ricordi e i cambiamenti in divenire diventa una vera e propria lettera d’amore per l’intero mondo della Settima Arte, esplicitato attraverso molti dei manierismi usati in carriera ma qui rivisitati in un’ottica mai così quieta e ragionata, perfetto palcoscenico per raccontare una storia di dolore e gloria. Come d’altronde recita il titolo originale, mantenuto anche nella distribuzione nostrana, Dolor y gloria è forse l’opera di una nuova maturità per un regista che ne ha già raggiunte diverse nella propria lunga e fortunata carriera, qui alle prese con una vicenda trattenuta ma non meno ricca di profonde emozioni che si svelano con i giusti tempi e modi nel corso delle due ore di visione, dando modo di approfondire la storia e i personaggi senza fretta o tempistiche serrate di sorta. Pedro Almodóvar sembra qui realizzare un omaggio ad uno dei suoi massimi ispiratori, ossia quel Douglas Sirk le cui atmosfere riecheggiano in più occasioni nel corso dei tumultuosi eventi, sempre sostanti su un equilibrio tragicomico destinato ad emozionare a più riprese.
Fin dal prologo ambientato nel passato veniamo trascinati in un viaggio a cavallo tra le epoche e i mondi, destinato a trovare una sublime chiosa nel sorprendente epilogo dal sapore metacinematografico che appare come un magistrale colpo di genio da parte del cineasta spagnolo. La trama di Dolor y gloria segue la tormentata esistenza di Salvador Mallo, un regista in passato all’onore delle cronache cinefile e da tempo in declino artistico. L’uomo, che soffre di diverse patologie fisiche dovute a problemi congeniti alla spina dorsale, sta vivendo una rinnovata notorietà quando uno dei suoi lavori più famosi degli anni ’70, Sabor, viene riscoperto in una retrospettiva dalle nuove platee e consacrato come opera di culto. Il cineasta contatta così l’attore protagonista, Alberto Crespo, con il quale non aveva più avuto rapporti dall’uscita in sala della pellicola per via di diversi contrasti alla fine delle riprese. Nonostante l’astio passato tra i due si crea un nuovo legame e Crespo introduce Salvador all’uso dell’eroina, la quale risulta il miglior palliativo per i dolori sempre più forti che questi sta soffrendo e che lo portano anche a improvvisi inizi di soffocamento. Nel frattempo Crespo scopre un testo autobiografico scritto dal regista e gli chiede di poterlo utilizzare come pièce teatrale per uno spettacolo che sta preparando, risvegliando nell’autore ricordi sopiti da tempo.
La vita si mescola alla finzione nella creazione più sentita del maestro iberico, che ha gettato nella sceneggiatura il suo percorso pubblico e privato senza remore in un’esposizione dove si mette a nudo senza remore di sorta, affidando il suo ideale alter-ego alla magistrale interpretazione di Antonio Banderas (vincitore del premio come miglior attore a Cannes e tra i più quotati alla relativa candidatura per la prossima edizione degli Oscar), amico e feticcio di vecchia data a cui affida le chiavi della sua anima: la figura di Salvador è così viva, pulsante e credibile, proprio per quella verità generata in fase di scrittura, che lo catapulta di diritto tra i migliori personaggi mai scritti da Almodóvar. Dolor y gloria è organizzato nei minimi dettagli senza perdere un briciolo di genuinità, equilibrando dolcezza e fasi drammatiche in maniera coesa e mai stucchevole, declassando l’irruenza a tratti scabrosa e ruggente di tante pellicole passate in favore di un’armonia pacifica e lineare che rapisce proprio nella sua semplicità. L’alternarsi tra il presente filmico e i numerosi flashback che ripercorrono l’infanzia del protagonista avviene con naturalezza, svelando progressivamente lati nascosti (seppur già intuibili inizialmente) che vanno poi ad ibridarsi nelle relative fasi temporali.
E Dolor y gloria qui convivono senza prevalere l’uno sull’altra, entrambe facce di uno stesso personaggio che è ormai abituato a nutrire il proprio essere senza cedere a facili lusinghe o a passioni che mai torneranno come un tempo, rassegnato forse ma mai abbattuto e anzi pronto a ritornare ancora una volta ad esprimersi con l’unico mezzo per lui catartico. Il percorso si ammanta così di sfumature volutamente inespresse, lasciate nascere e affievolirsi in un battito di ciglia, nello sguardo ambivalente di un Banderas mai così intenso e consapevole e nelle note arcaiche di una colonna sonora piacevolmente vintage. Con una Penelope Cruz che illumina al solito ogni sequenza in cui è presente, ritratto materno sofferto e necessario, e un cast di comprimari che rispolvera attori chiave del cinema almodovoriano e propone volti ivi inediti ma già apprezzati in produzioni di rilievo, il film sa come e dove colpire, cercando un’estasi viscerale che esuli dalla furia delle emozioni per aspirare ad una quiete interiore che si esteriorizza nell’approcciarsi ad un pubblico ormai totalmente rapito e perso, nel miglior senso del termine, all’interno del racconto.
Voto Autore: [usr 4,5]