Ronnie Curtis, all’anagrafe ebraica Ronit Krushka (Rachel Weisz), è una fotografa e vive a New York. Avvisata della morte del padre, il rabbino capo di una grande comunità ebrea ortodossa di Londra, attraversa l’Atlantico in volo per partecipare alle esequie funebri. Giunta nella casa della sua adolescenza, si rende conto dello stupore con cui tutti la guardano: nessuno si aspettava di veder tornare la ribelle che, una volta lasciata famiglia e comunità per inseguire i propri desideri oltreoceano, a casa non aveva mai voluto fare ritorno.
In particolare tra le persone che frequentava allora, ritrova il binomio con cui era inseparabile in gioventù: il cugino Dovid (Alessandro Nivola), rabbino a sua volta, allievo prediletto proprio del defunto padre della donna, in procinto di sostituirlo come guida spirituale della collettività ed Esti (Rachel McAdams) divenuta moglie di Dovid, insegnante benvoluta in una scuola elementare e adesso devota alla tradizione religiosa ebrea; con quest’ultima, all’epoca, Ronnie aveva sviluppato un legame più forte dell’amicizia, una vera e propria attrazione fisica, giudicata per il tempo e per il luogo proibitiva.
In attesa che la settimana di lutto sia portata a compimento “con onore”, Ronit scopre ben presto che le cose non sono cambiate, anzi si sono incistate esponenzialmente: la comunità fa ancora muro rispetto al diverso, le tradizioni sono legge, la parola della Torah e del suo rabbino, interprete eletto, vige su tutto perciò vestiti, capelli, cibo, educazione, sesso, festività, luoghi e orari di lavoro sono prestabiliti: non accettare le proprie presunte responsabilità non è compreso quindi non è consentito; Ronit stessa è rimasta un gigantesco punto interrogativo per gli altri, ma non per Esti, che, al contrario, non ha dimenticato gli anni passati: sola, dopo la partenza dell’amica, non ha retto psicologicamente ed ha sposato Dovid, su consiglio del rabbino, per trovare pace nell’amore dell’uomo, ma verso di lui ha sempre provato stima e rispetto, niente di più. Ora che le donna della sua vita è tornata vicina, probabilmente è tempo di rimettere tutto, radicalmente, in discussione.
Basato sull’omonimo romanzo del 2007 della scrittrice Naomi Alderman, “Disobedience” la fatica cinematografica del cileno Sebastian Lelio, targata anno 2017, è ancora una volta, come nello stile del regista sudamericano, la parabola di una diversità inaccettata, repressa, deformata, una disobbedienza lucida che non appassisce e non si fa fuorviare da tempo, distanza, diktat sociali o religiosi.
Le protagoniste sono due anime femminili, quasi una tradizione per Lelio che ci ha abituato a ritratti di donne forti e fuori dai canoni, non allineate nel comportamento, nella sessualità e nelle ambizioni rispetto alla maggioranza delle proprie consimili: la sua Gloria (2003, Orso d’oro a Berlino), riproposta nella recente versione americana dal titolo Gloria Bell, ballava sulle asperità della vita e sugli anni che le avevano più tolto che dato; parimenti Marina, in Una donna Fantastica (2017, Oscar come miglior film straniero), sconta, di fronte agli altri, “l’ostacolo” di essere transgender nell’amore che la legava al marito prematuramente scomparso.
Così anche qui il duo Ronit-Esti vive il proprio legame in modo tempestoso e lancinante: non sono state libere di esprimersi quando erano poco più che adolescenti e non sono libere di farlo ora. L’appartenenza alle rispettive famiglie le frena, le inibisce, le costringe a comportarsi a dovere, un dovere che non ha radici nella verità, ma in una forma autoritaria di controllo sociale che vorrebbe descrivere il reale secondo formule prestabilite, falsificandone e sfiancandone l’identità.
Per fortuna Lelio porta alta la fiamma della disobbedienza, la racconta con devozione ed onestà, la coltiva con passione, senza trascurare dettagli e sfumature, ci educa ad una sorta di insubordinazione dolorosa e felice che è il senso della libertà.
Il discorso iniziale del rabbino capo, infatti, poco prima che lo stesso morisse è uno specchio ed un presagio del tanto atteso elogio funebre che Dovid è chiamato a fare alla fine della tradizionale settimana di lutto, ed entrambi insistono sul concetto di libero arbitrio. Gli angeli furono fatti per guardare Dio, le bestie per seguire i propri impulsi, ma entrambi si comportavano secondo un disegno divino: allora, in questa perfezione di fatto, perché è stato creato l’uomo? Di cosa si sentiva il bisogno? Quale mancanza copre l’esistenza umana?
La polvere da cui proveniamo contiene il prodigio più alto di tutti, un unicum nel creato conosciuto, ossia proprio il libero arbitrio: declinare una scelta, cambiare direzione, dichiarare un intento proprio e non altrui, perseguirlo con vergine slancio, rende l’uomo speciale ed innalza il valore del suo stare al mondo. Esti non ha avuto scelta, Ronit ne ha avuta poco di più, ma entrambe sono state condizionate da un giudizio e questo, finchè si è vivi, non ha senso che accada.
Di qui la vitalità dei comportamenti prescelti e descritti da Lelio: le scene d’amore insistite e liberatorie, gli sguardi immediati che parlano di una complicità mai perduta, i gesti, gli approcci, i sorrisi, le cattive abitudini che tornano a fiorire come se la distanza e il rigore altrui non li avesse scalfiti; basta poco, pochissimo ed il tempo, quello passato, quello in cui si era più piccoli, più spontanei, più innocenti e più veri, riemerge con infinita e salvifica, prepotenza.
Da sfondo muto e soffocante, Londra la grigia, la compassata, l’apparentemente inerte, in cui non c’è sole, né colore, né calore umano manifesto; dove si sussura, non si parla, si spiffera, a voce mai piena, sempre soffiata e quando non lo è, quanto detto suona di circostanza; case, cose e persone della comunità sembrano dormire, vegliando da fuori se stessi in azione come fossero piccoli, anonimi, soldatini, intenti a coprirsi con vestiti senza forma, parrucche di uguale acconciatura, vite prestabilite; chi diverge sovverte e fa paura, perciò va ostracizzato.
E l’ambiente religioso è un perfetto habitat per metterlo in evidenza: l’integralismo, il radicalismo, l’intolleranza e la chiusura mentali sono spesso alimentati proprio in questi tipi di ambienti; eppure la sinagoga ed i suoi fedeli, sono solo un escamotage per far esplodere la rivoluzione, per permettere la quadra dei conti, un redde rationem con se stessi, senza barare o chiamare libri e profeti in difesa di scelte personali.
Girato in modo elegante ed essenziale, con il giusto tempo per dar respiro ai rapporti, farli rinascere più con i silenzi che con le parole, il film ha il merito di non spiegare, ma di gettarci nel turbine di rapporti già tesi: sorretto dalle ottime interpretazione dei tre attori, intimamente liberi, sempre in profondo ascolto, dotati di una sintonia interna ed una teatralità esterna composta ed efficace, capaci di innalzare il portato emotivo e di rendere gravida l’atmosfera di qualcosa che capiamo senza che ci venga esplicitata.
La disobbedienza non è più un affare morale, la trasgressione non è una moda contemporanea; a volte sono l’unica scelta possibile, il solo modo di esercitare il sacro libero arbitrio. Come dice Dovid nel finale, non c’è niente di più tenero e veritiero del legittimo sentimento di essere liberi.
Voto Autore: [usr 3,5]