Presentato per la prima volta al Sundance Film Festival nel gennaio 2020, Dick Johnson è morto è un documentario diretto da Kirsten Johnson e distribuito dal colosso streaming Netflix, che lo ospita nel suo catalogo dallo scorso ottobre. Nei quasi novanta minuti in cui il film si sviluppa, il focus tematico è mantenuto sul concetto di morte, come già si evince dal titolo. La regista tratta l’ostico argomento con ampia varietà di registri e toni, passando dal black humor alla commozione, dal nudo realismo all’onirismo. Nel suo sviluppare la narrazione, Johnson è affiancata dal padre, il Richard “Dick” Johnson che compare nel titolo.
In un anno in cui la cronaca è stata costretta ad esplorare quotidianamente il tema del decesso, il continuo parlare di morte sembra aver svuotato il termine del proprio significato. In quest’ottica, le modalità con cui Dick Johnson è morto si approccia al tema risultano provvidenziali e, paradossalmente, tornano a riempire il termine del significato e della dignità che merita. Johnson padre e soprattutto figlia riescono a plasmare un lungometraggio sensazionale e delicato, in cui la morte non viene sfiorata o allontanata ma, al contrario, affrontata di petto. La stessa genesi del progetto, tuttavia, sembra delle più paradossali. «Papà, che ne dici se facciamo un film in cui ti uccidiamo più e più volte finché non muori davvero?»: con queste curiose parole la figlia propone il bizzarro esperimento al padre, pensato forse per sensibilizzare sul tema, o forse semplicemente per esorcizzare la paura del futuro decesso paterno. E dato che i geni non mentono, a tale irriverente domanda la risposta paterna poteva essere una e una soltanto, come racconta la figlia: Dick Johnson ha riso a lungo, annuendo e acconsentendo di partecipare alla folle idea della sua Kirsten.
Il lungometraggio lega tramite il fil rouge narrativo della dipartita vari interessanti elementi. Alle scene in cui Johnston testimonia con la macchina da presa le conversazioni con l’anziano padre si alternano momenti onirici ambientati in un glamour paradiso immaginario e riflessioni sulla religione, nello specifico quella cristiana avventista del settimo giorno a cui si rifanno i Johnson. La narrazione è ulteriormente arricchita da certe irriverenti situazioni in cui padre e figlia si rivolgono a stuntmen affinché inscenino alcune tra le possibili morti di Dick, seguite poi dalla messa in atto di tali scenari. Alla realizzazione di queste scene si presta anche lo stesso Dick Johnson, attore per l’occasione, che scopre con entusiasmo certi trucchi del dietro le quinte e si avvicina concretamente al mestiere della figlia, forse per la prima volta.
Dick Johnson è morto obbliga lo spettatore, seppur con eleganza, a riflettere sulla morte, un argomento che condiziona inevitabilmente le nostre vite e le nostre azioni, sommergendo di interrogativi e paralizzando di paura al punto tale che, per esorcizzarne le complicate implicazioni, le odierne società occidentali tendono ad evitarlo, rendendolo un tabù non necessario. Non è un caso, in questo senso, se durante una delle primissime scene del film, quella del funerale simulato, l’amico di Dick ha difficoltà ad accettare ciò che vede, sebbene sappia che il protagonista è vivo, in salute, e che si tratta di una dichiarata finzione. La surreale situazione rivela quanto l’immagine della morte, per quanto apparente, costruita, sia ostica per l’occhio e per l’animo umano, che la allontana da secoli. Proprio nella sua capacità di affrontare con pungente ironia e delicatezza sopraffina un tema convenzionalmente considerato scomodo, quello della mortalità, Dick Johnson è morto riesce a restituire a sua volta un forte senso di attaccamento alla vita.
In questo, la sapiente regia di Kirsten Johnson si rivela fondamentale. Il suo uso della macchina da presa, di rouchiana memoria, permette di portare avanti la riflessione alla base del film conducendo il padre in spinose conversazioni, non dissimili ad esercizi di maieutica. Il ruolo della regia è catalizzatore degli eventi: non si limita a registrare ma partecipa attivamente alla genesi del prodotto. La struttura filmica presenta alcuni stilemi tipici del documentario, in primis le interviste e la marcata mobilità della macchina da presa direttamente derivanti dal cinéma-vérité. Tuttavia, alcuni momenti del film non sono registrati in presa diretta ma “costruiti” appositamente (le varie morti di Dick), collocando la pellicola in un limbo raramente esplorato, tra fiction e documentario. La curiosità che genera questa eterogeneità è rafforzata dall’inserimento delle scene oniriche, a cui se possibile lo spettatore è ancor meno abituato. In ogni momento l’occhio registico osserva e restituisce, con sguardo critico ma al contempo inevitabilmente affettuoso. Particolarmente degna di lode l’insistenza sugli efficaci primi piani, capaci di rendere al pubblico lo stato d’animo di Richard Johnson: i suoi occhi, spesso lucidi, sono a fasi alterne veicolo di stupore, commozione, paura e stordimento.
Sulla narrazione grava costantemente la fantasmatica presenza della defunta moglie di Dick (e madre della regista). Padre e figlia la rievocano spesso, addentrandosi nelle zone d’ombra che hanno caratterizzato gli ultimi anni di vita della donna, colpita da Alzheimer. Per entrambi ciò che la donna ha subito è monito di ciò che potrebbe accadere a Dick. Per questo l’uomo esplora la veneranda età con timore e pragmatismo (quantomeno inizialmente), mentre la figlia si augura che il padre non debba sopportare lo stesso destino della donna. L’exemplum materno permette anche di constatare come l’andamento delle esistenze umane sia destinato inevitabilmente a seguire la stessa traiettoria. Alcune tappe tornano, sempre uguali, e la storia si ripete: Dick inizia a perdere la memoria ed è costretto ad allontanarsi da casa come la moglie, e come la madre era andata a vivere con lui, Dick è costretto a convivere con la figlia.
Le direzioni in cui si muove Dick Johnson è morto, a livello prettamente tematico, permettono di esplorare alcune caratteristiche della terza età con sguardo tenero ma disilluso. Con l’impatto che ha per Dick l’allontanamento dalla sua automobile, ad esempio, viene introdotto il complicato argomento della perdita dell’indipendenza. Allo stesso modo, la regia evidenzia i parallelismi tra l’infanzia e l’anzianità. Dick sembra infatti gioire delle cose più semplici; si lecca la glassa dalle dita, si entusiasma per una torta al cioccolato e dorme accompagnato da un coniglietto di peluche. L’episodio del ricongiungimento con Lolita, ex-ragazza del protagonista, permette di sottolineare teneramente l’attaccamento che i due provano per il loro passato, mentre a vicenda si ripetono di non trovarsi affatto cambiati. Altrettanta enfasi è posta sulla devozione nei confronti della propria vita professionale, ormai passata: il suo trascorso da psichiatra, che lo ha plasmato rendendolo l’uomo che è al momento delle riprese, riaffiora in svariate occasioni.
Con Dick Johnson è morto ci troviamo di fronte ad un’opera indubbiamente rara, sia per temi che per stile e tecnica. Il film è un valido tentativo da parte della regista di approcciare il genere documentaristico in modo fresco, contaminandolo con elementi innovativi. Certamente è anche un modo di condividere con l’anziano padre degli ultimi intensi momenti, riflettendo al contempo sul passato e sui concetti di vita e di morte. Forse è un esperimento volto a ritardare utopicamente il decesso paterno, esorcizzandone la paura tramite l’ossessiva ripetizione di scenari mortali. Indubbiamente, ciò che ne risulta è un’opera creativa, a tratti surreale e certamente sperimentale, che testimonia un amorevole legame padre-figlia fornendo allo spettatore una riflessione sulla morte potente ma delicata, intelligente ma commovente.