Probabilmente dire Detroit in Italia nel 1967 avrebbe prodotto come unico risultato la canzone Spaghetti a Detroit di Fred Bongusto. In realtà, in quello stesso anno, nella capitale automobilistica statunitense (qui ha sede la Ford), si è consumata una delle pagine più efferate e nascoste della storia americana. Una guerriglia urbana inedita e forse mai più ripetuta negli USA. Dal 23 al 27 luglio del 1967, l’irruzione immotivata e violentissima della polizia in uno dei più conosciuti locali afroamericani della città, scatenò una sollevazione popolare che ben presto si trasformò in un’autentica rivolta, con tanto di intervento dell’esercito per volere del Presidente Johnson. Il bilancio finale segnerà 43 morti, 1189 feriti, 7200 arresti e 2000 edifici distrutti. Ma ancor più grave, se possibile, è stata la risonanza che questi fattacci hanno mantenuto nelle coscienze degli americani, e soprattutto della comunità nera. Un’onta che le amministrazioni statunitensi successive si sono adoperate per cancellare agli occhi della comunità internazionale, tanto da risultare praticamente sconosciuta alle orecchie di quasi tutto il mondo. O, peggio, tanto da essere considerata, in molti paesi, una delle tante vergogne a sfondo razziale che hanno accompagnato, da sempre, questo piccolo e grande paese chiamato Stati Uniti.
Per raccontare una storia del genere senza una pericolosa retorica e senza perdere il rispetto nei confronti di chi di quei fatti è stato diretto testimone, serviva una personalità forte dietro alla macchina da presa. Ecco che allora Kathryn Bigelow, non si è lasciata sfuggire l’opportunità, dirigendo Detroit, ovvero la sua versione sulla rivolta del ’67, portato in sala nel 2017, a distanza di cinque anni dal magnifico Zero Dark Thirty. Versione, a onor del vero, sua e di Mark Boal, ormai suo fedele compagno di lavoro, alla terza collaborazione, in veste di sceneggiatore, con la prima donna capace di conquistare l’Oscar come Miglior Regista nel lontano 2010. La scelta narrativa della regista, è stata quella di concentrarsi non sull’intera vicenda, complicatissima e molto fitta di avvenimenti, ma su pochi episodi realmente accaduti, da raccontare sullo schermo nella maniera più fedele possibile alla verità storica. E pazienza se, come si legge nel cartello finale, alcune questioni sono state romanzate per mancanza di documenti ufficiali su quei fatti; il risultato è un film al cardiopalma, violento e crudo più per l’anima che per gli occhi, che conferma la sua autrice come una delle leader mondiali del cinema di pura messa in scena.
I fatti su cui la macchina da presa della regista di The Hurt Locker si sofferma maggiormente sono sostanzialmente due: l’episodio scatenante di tutta la sommossa, la retata della polizia in un bar del ghetto, e le torture compiute da una manciata di poliziotti e membri dell’esercito al Motel Algiers. Essi sono raccontati per mezzo di un certo numero di personaggi, coinvolti in modo diverso al loro interno. C’è Melvin Dismukes (John Boyega), operaio e agente di sicurezza privata afroamericano, che si ritrova testimone e forse complice dei trattamenti inumani da parte della Polizia ai danni degli ospiti del Motel, per lo più con la pelle del suo colore; c’è Philip Krauss (Will Poulter), agente di polizia già accusato di omicidio immotivato ai danni di un afroamericano, che, disgraziatamente, prende il comando dell’operazione all’Algiers, diventando la vera e propria incarnazione del male; c’è Larry Reed (Algee Smith), leader dei The Dramatics, un gruppo pop a cinque voci, che aspira al successo, ma che con un suo amico, si ritrova nel posto sbagliato al momento sbagliato. E poi, come figure di contorno, ma nemmeno poi così tanto, ci sono un ex paracadutista di colore, due ragazze bianche dell’Ohio, prese di mira dai poliziotti per la loro promiscuità, specialmente con gli afroamericani, e una vera e propria galassia di altre persone e storie, tutte coinvolte e sconvolte da una situazione mai vista.
L’aspetto che più di tutti colpisce sempre quando si guarda un film della Bigelow, è l’inconfondibile impronta che riesce ogni volta a dare alle sue creazioni. Lo stile della regista non viene mai indebolito dalla storia narrata, sia essa ambientata in Medio Oriente o in una metropoli americana, ma anzi, ne risulta potenziato e, per così dire, valorizzato. L’inizio di Detroit spiazza lo spettatore: il film comincia con una serie di cartelli che ripercorrono la storia della minoranza afroamericana nella città della Ford, con tanto di dipinti su quel tema. Una vera e propria odissea, legata ai corsi e ricorsi della storia, che ha visto la comunità nera della città sempre protagonista suo malgrado. Esattamente come nei suoi ultimi due film (i suoi capolavori indiscussi) l’inizio è dunque fondamentale, forse la parte più importante dell’intera pellicola. La regista, che assume quasi il ruolo di profeta dell’intera vicenda, sembra avvisare lo spettatore di non stupirsi dei fatti che sta per vedere sullo schermo, perché essi sono solo la diretta conseguenza di decenni di squilibri sociali e di cattive politiche d’integrazione. Se Zero Dark Thirty cominciava con la tragedia dell’11 settembre, senza rappresentare le immagini video ma riproducendo solamente l’audio, come a non voler aggiungere a quell’orrore altri, futili, punti di vista, Detroit inizia con una dichiarazione di colpevolezza verso il suo paese, vero responsabile di quel misfatto e di qualsiasi altro episodio di violenza razziale. Una dichiarazione di guerra bella e buona contro la sua società, che arriva quasi a rendere gli effettivi autori delle torture nel motel, semplici esecutori dell’intima volontà cittadina.
Ma lo stile della Bigelow non si fa monumento solo nell’incipit, ma in generale nel corso di tutta la pellicola. Di fatto Detroit si può interpretare come un film doppio, in cui le due parti sono diversissime e quasi antitetiche per modalità di sviluppo. Come un motore diesel, il film fatica a carburare; bisogna aspettare un’oretta prima di capire realmente cosa stia accadendo sullo schermo. In questa prima parte la regista ci introduce, uno per uno, tutti i protagonisti della vicenda, raccontandoci al contempo i fatti scatenanti della rivolta popolare. C’è una confusione incredibile, ricercata e ottenuta dalla Bigelow, e accresciuta dall’uso della macchina da presa, in questa fase praticamente sempre a mano e molto oscillante, instabile, tanto da perdere spesso il fuoco, e dal montaggio frenetico di William Goldenberg (storico collaboratore di Michael Mann). Si fa fatica anche a sentire i discorsi perché anche l’audio è fortemente disturbato. Il risultato è presto chiaro: una sensazione di ansia e frenesia nello spettatore, che si aspetta di percepirla sempre di più con l’aumentare delle violenze (va ricordato che se lo spettatore europeo può non conoscere i fatti di cui si parla, quello americano non può non averne mai sentito parlare).
Invece, in seguito comincia il “secondo film”, quello interamente ambientato nell’Algiers Motel. E allora, a parte l’irruzione iniziale della polizia, con tanto di omicidio a sangue freddo da parte di Krauss, regna sovrana la calma e l’immobilità. La macchina da presa improvvisamente si ferma, perché si immobilizzano i personaggi, costretti a tenere le mani contro il muro mentre la polizia gioca sadicamente con le loro vite e coscienze. Guardando tutto ciò, all’inizio si è confusi, ma più si va avanti con i fatti e più si capisce quanto questa scelta di spezzare a metà film e ritmi di esso sia azzeccata. Per quaranta minuti assistiamo ad un’indagine disumana, fatta di violenze effettive e psicologiche, rimanendo immobili e senza possibilità di fuga come i protagonisti. Insomma, una partecipazione con la diegesi non solo emotiva, ma fattuale, paragonabile quasi ai meccanismi che regolano alcuni horror o escape movie. Non è un caso che, proprio in seguito alla sua ottima prova in questo film, Will Poulter sia stato uno dei principali indiziati per vestire i panni di Pennywise nel remake di It.
Detroit, come tutti i film a tematica razziale, ha suscitato numerose polemiche al momento della sua uscita. Fra le critiche principali rivolte alla pellicola ci fu senza dubbio l’accusa rivolta alla Bigelow di aver rappresentato la comunità afroamericana come una massa indistinta di individui senza ideali né ambizioni se non quella di vivere una vita tranquilla. Critica questa di per sé inspiegabile se si considera il contesto sociale nel quale queste comunità venivano ghettizzate in ogni grande città in questi anni. In più gli unici personaggi davvero ambiziosi e desiderosi di cambiamento nel film hanno la pelle scura (su tutti i The Dramatics, costretti ad esibirsi soltanto dietro le quinte del teatro e quindi doppiamente vittime di quel sistema, nella vita e nell’arte). Più intelligenti e pungenti furono certamente le accuse di “torture porn” nel modo di raccontare la vicenda dell’Algiers e soprattutto di semplificazione nel raccontare la polizia di Detroit di quegli anni. Di fatto il film sembra dirci che il problema erano soltanto alcune mele marce all’interno di un dipartimento di polizia per il resto ineccepibile. Inutile insistere su quanto la storia avrebbe altre cose da dire su questo punto. Il fatto è che le forze dell’ordine in Detroit sono fatte di uomini in generale di buonsenso che però finiscono sempre per sottomettersi alle follie dei membri più carismatici, razzisti e violenti. Da questo punto di vista, quella che voleva chiaramente essere una critica estrema sulle forze dell’ordine di quel periodo (ma a giudicare dai fatti di strettissima attualità, ancora di oggi), ha perso un po’ la bussola, finendo per risultare potenzialmente ambigua.
Altro elemento che convince meno del solito è la scelta di realizzare un’opera corale, con protagonista la società più che un singolo o pochi personaggi. Kathryn Bigelow da sempre è magistrale nel raccontare storie di poche personalità forti. In un certo senso, con personaggi come quelli interpretati da Jessica Chastain in Zero Dark Thirty o da Jeremy Renner in The Hurt Locker (ma si potrebbe fare lo stesso ragionamento parlando anche di Point Break), la regista ha riscritto la figura dell’eroe cinematografico, portandola ad un grado di completezza e modernità incredibili, come pochi altri registi hanno saputo fare. Molto diverso è il discorso se si vuole fare un film corale, e paga un po’ di inesperienza in questo senso. Funziona invece come sempre il lavoro sul personaggio mediante la macchina da presa. In Detroit si assiste ad una gestione del primo piano magistrale. Vedere il volto sorpreso e contrariato ma impotente di John Boyega o quello sadicamente lucido di Will Poulter, raggiunge il duplice scopo di ammaliare lo spettatore coinvolgendolo emotivamente, e di sorprenderlo, tenendo nascosti, fino all’ultimo, i numerosi inganni di cui il film è pregno. Inoltre è ormai cifra stilistica consolidata da parte della regista il ricorso, quasi sempre repentino e inaspettato, alle immagini documentaristiche. Così nel corso del film vediamo montaggi di immagini dal Vietnam e dalle periferie americane, discorsi di Johnson e di altri politici, alternati con la stretta diegesi, riuscendo in qualche modo a racchiudere in una vicenda decine di altre suggestioni fortemente evocative.
Detroit è una pellicola che non raggiunge le vette dei due film precedenti di una delle più grandi autrici della sua generazione, ma che riesce comunque a soddisfare i palati di chi ama il cinema fortemente “visivo”, senza fronzoli superflui. Per quelli ci pensa già la storia.