Nelson Mandela diceva che il ricordo è il tessuto dell’identità. Ed è proprio la ricerca di questa identità ad essere al centro del debutto alla regia di Greta Gerwig. La storia semi-autobiografica messa in scena in “Lady Bird” prende vita proprio grazie ai ricordi della regista che racconta così, attraverso il grande schermo le sue radici. Siamo a Sacramento, in California e la giovane Christine McPherson (Saoirse Ronan) frequenta l’ultimo anno di una scuola cattolica, in attesa di decidere quale college frequentare. Inizia il nuovo millennio: sta per scoppiare la guerra in Iraq e internet non ha ancora invaso le nostre vite in maniera così pervasiva.
L’adolescenza sta per finire e ci troviamo in quella fase delicata di transizione verso la vita adulta. Christine si sente grande, ma agisce ancora come un adolescente. La scelta di usare lo pseudonimo Lady Bird ne è forse la prova più evidente. Questo nome rispecchia la dualità, come in un palcoscenico. Lady Bird è la maschera di Christine che lei decide di usare o meno a seconda del contesto sociale in cui si trova. Greta Gerwig, nel corso del film richiama spesso le atmosfere del teatro, mettendo in scena un’opposizione fra commedia e tragedia: vediamo degli adolescenti liberi, spensierati, innamorati e poi con una certa meschinità ritorniamo alle cose importanti come il college, i problemi economici e il rapporto con i genitori.
Il rapporto fra Lady Bird e sua madre Marion (interpretata da una splendida Laurie Metcalf) è centrale. È un rapporto odio/amore in cui ogni figlia e ogni mamma si rispecchia. È complicato, folle, bellissimo. Se da una parte troviamo il desiderio di indipendenza di Lady Bird, dall’altra troviamo la paura di una mamma di non poter più controllare sua figlia, e doverla di conseguenza abbandonare. Questi due aspetti entrano inevitabilmente in conflitto e vengono messi in scena in maniera travolgente e realistica.
Lady Bird è egocentrica. Tutto ruota intorno ai suoi bisogni e non è disposta a fermarsi davanti agli ostacoli, si prende i suoi spazi e non aspetta che qualcuno le dica quanto sia bella, o quanto sia popolare. Sa cosa vuole e non ha bisogno che qualcuno la riconosca o autorizzi come soggetto. Lo vediamo chiaramente nelle sue relazioni sentimentali. È come se vivesse un film nella sua testa, che però non corrisponde al film che vediamo realmente rappresentato.
Questa sua visione così totalizzante non le permette di apprezzare le cose belle che realmente ha. Come un po’ tutti i personaggi presenti nel film, Lady Bird guarda sempre avanti, crogiolandosi nel pensiero di una vita migliore (studiare a New York, abitare in una casa più grande) non accorgendosi che lei stessa a sua volta è oggetto d’invidia da parte della sua migliore amica Julie (Beanie Feldstein). Si è sempre l’oggetto di invidia di qualcun altro. Ma c’è un momento rivelatore: Lady Bird è pronta per andare al ballo di fine anno con la sua combriccola di amici ma all’ultimo minuto essi snobbano il ballo. Lady Bird allora decide di farsi accompagnare a casa della sua migliore amica Julie, in modo da poter andare al ballo insieme. È qui che Lady Bird realizza che si può essere determinati e grintosi, senza dover perdere di vista la propria umanità.
“Non pensi che siano la stessa cosa? Amore e attenzione?”
Suor Sara Joan
La frase pronunciata da suor Sara Joan in un colloquio con Lady Bird racchiude l’essenza del film. Amore/attenzione che trapelano anche nelle scelte di regia di Greta Gerwig e del suo direttore della fotografia Sam Levy. Per ricreare visivamente sullo schermo il concetto di ricordo il film sembra tutto un fermo immagine, con riprese ponderate e definite in maniera chiara. La fotografia è semplice, ma allo stesso tempo attraente. Non viene usata la cinepresa a mano e non vengono usati abbellimenti tecnici per mostrare Sacramento. Risaltano i colori vivaci, il rosa, il blu e il color caramello per rimandare alla mente i tramonti californiani.
La colonna sonora di Jon Brion è un po’ old style, in perfetta armonia con lo stile della regista. Greta Gerwing ci racconta una storia di crescita in maniera semplice (a volte quasi brutale) e raffinata toccando i giusti tasti. Ci fa riflettere su quel delicato processo durante la crescita, in cui spesso rinneghiamo i nostri luoghi d’origine per poi scoprire più tardi che in realtà così male non sono. Da adolescenti abbiamo sempre voglia di esplorare, siamo costantemente in movimento e non ci accorgiamo di quello che abbiamo sotto il naso.
La profondità del legame familiare di Lady Bird diventa evidente nel finale, quando Lady Bird parte per New York. Le sensazioni sono tutte racchiuse in una scena. Marion è in auto e viene inquadrata in primo piano. Lascia la figlia in aeroporto e riparte, arrabbiata, cocciuta. Poi, piano piano la sua rabbia sfuma lasciando delicatamente spazio ai suoi dubbi, al suo dolore e ritorna così indietro per cercare di dare un ultimo abbraccio alla figlia, che però ahimè è già partita. È una scena brillante, potente che lascia spazio solamente alla commozione.
Arrivata a New York Lady Bird deve fare inevitabilmente i conti con se stessa: chi è, da dove viene, se è cambiata, che cosa farà, e si reca quindi nel luogo che risulta essere per lei familiare, ovvero una chiesa. In un momento di grazia, Lady Bird ritorna nel luogo d’origine, ed è come se volesse chiedere perdono. Ma non può rimanere. Esce e nella straziante telefonata che fa alla sua famiglia ci accorgiamo che lei e sua madre sono due facce della stessa medaglia. Siamo consapevoli che sta per iniziare una nuova storia. Si completa il viaggio di Christine e nel sospiro che chiude bruscamente il film, il ricordo di Lady Bird vola via, lontano.
Voto Autore: [usr 3,5]