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Da 5 Bloods

Dov’è il Vietnam? In tv. Io non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato “negro”. La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America. E sparargli per cosa?  Voi siete i miei oppositori se voglio la libertà, siete voi i miei oppositori se voglio giustizia. Volete che vada da qualche parte e combattere. Ma difenderete mai voi me qui a casa?

Così Muhammad Ali rifiutava di partire per andare a combattere in Vietnam: il pugile più devastante sferrava il suo colpo più vigoroso, dritto alla pancia di quell’America le cui contraddizioni intestine, nutrite a capitalismo e sopraffazione, continuano a esplodere, e ad uccidere, anche in questi giorni. È con queste parole che inizia “Da 5 Bloods”, l’ultima esplosione di rabbia e vita firmata Spike Lee.

Furioso, traboccante, disperato. “Da 5 Bloods” è una folgorazione. Dov’è il Vietnam? È qui, ed è ora. A Saigon è cessato il fuoco, ma mentre il capitalismo imperversa per le sue strade, là, nella foresta, le mine antiuomo non smettono di esplodere, e qui, in America, di odio razziale si continua a morire.

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“Da 5 Bloods” è soprattutto una furiosa profezia. Scritto tra il 2013 e il 2018, il film è così drammaticamente attuale da sembrare voluto e pensato oggi, in questi giorni macchiati ancora una volta di sangue, in questi giorni in cui da Minneapolis si è levato un grido così dannatamente colmo di rabbia da risuonare in ogni parte del mondo. “Black Lives Matter”. Le vite dei neri contano. E Spike Lee, che quella battaglia la combatte da tutta una vita, cita proprio quel movimento per i diritti civili nelle scene conclusive del suo film.

Spike Lee insieme al cast di “Da 5 Bloods”

Spike Lee racconta il duplice mortale tormento inflitto ai neri statunitensi, discriminati e contemporaneamente mandati a morire, in nome di quel grande Paese che li vuole al fronte ma li rifiuta in patria. Per farlo sceglie di battagliare contro il cinema americano, quello fatto di star, eroi e slogan. Lee si burla degli iconici “white heroes” alla Rambo, e si diverte a far rimbalzare come un intrepido giocoliere i generi tanto cari alla tradizione del cinema hollywoodiano. “Da 5 Bloods” è un western, mosso da avidità, onore e vendetta, con tanto di ricerca di un tesoro perduto. È una commedia in cui il riso viene smorzato dall’affanno per il tempo andato. È un film di guerra, in cui si spara e si muore.

Spike Lee è quello di sempre, ma in “Da 5 Bloods” sceglie di usare tutto l’armamentario messo a sua gentile disposizione dalla cinematografia dominante, succube del culto bianco. Avvolto nella sua solita ironia, mosso dalla sua solita esuberanza, Lee mira dritto al cuore dell’America di oggi, di chi oggi siede alla Casa Bianca, del suo razzismo che dilaga nelle strade.

Ho Chi Minh City, la vecchia Saigon. Quattro uomini sulla settantina bevono e ricordano i vecchi tempi, sullo sfondo troneggia luminescente il nome del locale: Apocalypse Now. La città è stata conquistata dopo decenni dall’arma occidentale più feroce, il capitalismo. In città nulla è come lo avevano lasciato.

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Da 5 Bloods

Durante il conflitto, Norman ‘Tornado’ Holloway (Chadwick Boseman – “Black Panther”) è a capo di un plotone di soldati americani di colore impegnato in una missione di recupero di un aereo di proprietà della C.I.A. abbattuto nella foresta vietnamita. La ragione di tale sforzo è presto detta: il velivolo nasconde un prezioso carico, un forziere stracolmo di lingotti d’oro, ricchezza destinata a ricompensare la parte della popolazione vietnamita disposta a collaborare con gli Usa. Una volta scoperto l’oro i soldati decidono di non riportarlo alla base: lo nascondo e promettono di recuperarlo a guerra terminata. Ma Norman Holloway viene ucciso e i suoi fedeli compagni di battaglia decidono di seppellirlo vicino al tesoro, con la promessa di tornare da lui e da quella fortuna occultata nella giungla.

Quasi 50 anni dopo, uno smottamento potrebbe aver fatto riemergere parte dell’aereo: è l’occasione giusta per tornare in Vietnam. Sono stati anni difficili, di sonni incompiuti e incubi vividi, anni in cui non si sono tenuti vicini, provando disperatemene a dimenticare. Paul (Delroy Lindo), porta oggi un cappellino con su scritto “Make America Great Again”, frustrato, disperato, con un disturbo post traumatico da stress che non riesce ad ammettere né a superare . Otis (Clarke Peters) ha mantenuto ironia e ideali, ma necessita di numerosi antidolorifici per conservare fiducia e autocontrollo. Eddie (Norman Lewis) è in bancarotta, un’altra vittima della crisi economica; mentre Melvin (Isiah Whitlock Jr.) non se la passa poi tanto male, se non fosse per quella tendenza ad alzare troppo il gomito.

Da 5 Bloods

Prima c’era Norman, “il loro Malcolm e il loro Martin”, una fratello e una guida, che proprio come Malcolm X e il Reverendo King è stato assassinato. Dopo la sua morte, a guerra terminata, gli ideali della lotta per i diritti civili non hanno più incendiato i loro animi come accadeva quando ascoltavano le sue parole. Hanno prevalso l’egoismo, il bisogno di dimenticare, l’orgoglio e il desiderio di un riscatto personale, inseguito senza pensare alla lotta di una comunità intera. Prima desideravano servirsi di quel denaro per ripagare la loro gente dei sacrifici fatti al fronte e in patria, per finanziare quel movimento che aveva (e ha tuttora) necessità di chiedere giustizia.

Oggi i quattro veterani hanno idee diverse su come impiegare il bottino, e non sono i soli ad essere interessati. Uno sgradevole intermediario francese in abito di lino bianco (Jean Reno) diventerà sempre più scomodo (la sua aggressività appare un chiaro riferimento alla politica di Trump), mentre uno strano trio (Mélanie Thierry, Paul Walter Hauser – “Richard Jewell”- e Jasper Paakkonen – “Vikings”), appartenente ad una ONG internazionale, sembra avere ottime intenzioni, ma queste potrebbero sciogliersi come neve al sole davanti al succulento colore giallo dell’oro.

Norman ‘Tornado’ Holloway (Chadwick Boseman)

I protagonisti di “Da 5 Bloods” uomini dai tratti complessi e contradditori, nulla in loro richiama i granitici ed esemplari eroi di guerra della tradizionale narrativa bellica, sebbene la loro personale battaglia non possa ancora definirsi conclusa. I loro ideali sono stati falciati via, dal tempo, dagli errori, dalle tentazioni. Mandati al fronte in prima linea per venir trucidati prima dei compagni bianchi, sono uomini dalle ferite interiori celate malamente, spazzati dal peso dell’orgoglio di essere sopravvissuti ad un’atroce guerra e dal rimpianto di non essersi battuti in patria per l’unica cosa che conta davvero: la liberazione dalle catene del razzismo.

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Il personaggio di Paul diventa il simbolo dell’amaro prezzo pagato da una comunità intera. Paul è tormentato, insonne, violento, sospettoso. È “il momento di toglierci questi immigranti freelance dalla schiena e di costruire quel muro” inveisce, ammettendo di aver dato il suo voto al governo Trump. Offre così un assist perfetto a Spike Lee, che ne approfitta per mostrarci i paradossali per quanto reali vessilli “Blacks for Trump” durante un comizio in Florida nel 2016.

Quale sia il pensiero di Mr. Lee in merito all’attuale presidente è cosa nota, ma è bene ricordare anche l’affettuosa premura narrativa mostrata dal regista per i personaggi con i quali è in pieno disaccordo politico. A partire dal reazionario italiano di John Turturro in “Fai la cosa giusta” fino al suprematista bianco di Paakkonen in “BlacKkKlansman”, Lee trasforma i suoi oppositori in presenze colossali, affascinanti e terrificanti, tanto che sono proprio le loro contraddizioni a renderli più credibili.

Da 5 Bloods
Delroy Lindo (Paul) e Jonathan Majors (nei panni del figlio David)

In “Da 5 Bloods” è il dolore che sgorga dagli occhi di Delroy Lindo (Paul) la morale dell’intera storia. La confessione a cui lo costringe Lee, con lo sguardo fisso in camera, è un soliloquio intimo, appassionato, faticoso. Uno dei monologhi più intensi che il cinema ricorderà.

“Da 5 Bloods” sostiene il messaggio politico mediante una narrazione visiva magnificamente funzionale al suo contenuto. Lee alterna le riprese cinematografiche ad immagini di repertorio, trasformando il suo ultimo lavoro in un prontuario delle lotte black. Utilizza inoltre espedienti fotografici molto intriganti, come la transizione dal 16:9 digitale al formato 4:3 in Super 8mm, a seconda del tempo rappresentato. La cornice si restringe per indicare che si torna in guerra, e il balzo al presente è possibile con la ripresa del full screen.

Lee inoltre si tuffa nei ricordi per poi riemergere nel presente utilizzando gli stessi attori: l’effetto è straniante, ma perfetto. Lee lascia che gli attori interpretino i propri sé più giovani senza trucchi. Perché quando il passato bussa ogni notte alla tua porta non si può far a meno di riviverlo con tutto il peso del tempo che portiamo dentro. “Da 5 Bloods” non ci prova nemmeno a camuffare i suoi attori senior al fianco del più giovane Chadwick Boseman (“Stormin’ Norm”) nelle scene di flashback; in fondo i morti sono gli unici a non invecchiare mai. (Scelta ben diversa da quella del collega Scorsese in “The Irishman”).

Quella di Spike Lee è una vera e propria guerriglia cinematografica, lui da vero combattente non ha mai perso di vista il bersaglio e l’arma che ha fabbricato questa volta è di una potenza distruttrice inaudita. Spike Lee fa un salto in un recente passato ma viviseziona il presente, confeziona un film di guerra eppure la sua battaglia la si combatte senza uniformi, manda i suoi personaggi alla ricerca di un tesoro pur sapendo che tutto quell’oro non sarà mai sufficiente a pagare il debito degli Stati Uniti d’America nei confronti di chi ha costruito davvero la nazione più grande del mondo.

“Da 5 Bloods” è una tempesta di rabbia e sensi di colpa, di risentimento e brama di riscatto. I veterani black hanno combattuto da soldati una guerra che non è mai stata la loro. Sono stati fratelli di ideali. E oggi si ritrovano in camicia hawaiana a sorseggiare una bevanda tropicale dallo stesso sapore acido e persistente del passato che non vuole essere seppellito.  “Da 5 Bloods” è attraversato da così tante pulsioni vitali da convincerci ad uscire dal torpore. La sveglia di Spike Lee (dopo il primo sonoro rintocco invocato da Love Daddy in “Fa’ la cosa giusta”) è tornata a scuotere le nostre ingorde ed oziose coscienze.

PANORAMICA RECENSIONE

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

"Da 5 Bloods" è una tempesta di rabbia . Spike Lee si burla degli iconici “white heroes” alla Rambo, e gioca con i generi tanto cari alla tradizione del cinema hollywoodiano. Il film sostiene il suo messaggio mediante una narrazione visiva perfettamente funzionale al suo contenuto. Lee alterna le riprese cinematografiche ad immagini di repertorio, trasformando il suo ultimo lavoro in un prontuario delle lotte black.
Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.

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"Da 5 Bloods" è una tempesta di rabbia . Spike Lee si burla degli iconici “white heroes” alla Rambo, e gioca con i generi tanto cari alla tradizione del cinema hollywoodiano. Il film sostiene il suo messaggio mediante una narrazione visiva perfettamente funzionale al suo contenuto. Lee alterna le riprese cinematografiche ad immagini di repertorio, trasformando il suo ultimo lavoro in un prontuario delle lotte black. Da 5 Bloods