Claudio Caligari è quello che si è soliti definire un “artista d’altri tempi”. Nel caso di specie, si parla di settima arte. Non un cinema qualunque però, bensì un cinema ragionato con un profondo senso storico e sociale.
Artista d’altri tempi, certo. Ma un regista e documentarista che piuttosto ha l’intento di portare i tempi che furono nel presente per dargli una lettura personale e interrogare al contempo il pubblico dicendo “e voi, che ne pensate?”. Vano a suo dire l’intento didattico; molto più proficuo coinvolgere lo spettatore rendendolo partecipe e non agente passivo del tutto.
Claudio Caligari viene da una formazione praticamente da autodidatta. Dirà, lungo l’arco delle varie interviste riservategli, che non si può collocare un cineasta al di fuori di un certo contesto storico di riferimento. Se quest’espressione non dovesse ricordarvi nulla, allora è bene rinfrescare la memoria.
Le sue radici cinematografiche sono infatti marcatamente pasoliniane: la storia plasma l’uomo, l’uomo plasma la storia. Il motivo è da ricercarsi nel fatto che, a suo modo di intendere e volere, il trasporto che si ha verso la settima arte è da ricercare nel popolo, nella marmaglia e in tutte quelle situazioni di disagio che strutturano la società in classi.
La sua passione, nel concreto, nasce in un periodo in cui gli strati più poveri della comunità vivevano il cinema come uno sfogo, un atto celebrativo della loro essenza. Siamo dunque negli anni Cinquanta e Sessanta: L’Uomo senza paura, Roma città aperta e altri capolavori del genere davano alla massa una speranza o, quanto meno, tentavano di rappresentarla facendola sentire meno sola.
Claudio Caligari verrà poi attirato (intorno al fantomatico sessantotto) dai subbugli politici dell’epoca che quasi lo porteranno ad avvicinarsi alle Brigate Rosse (idealmente si intende). Viene da sé quindi comprendere perché, nonostante Caligari provenga da Arona, sia sempre stato ispirato da Roma.
La capitale è un perfetto corollario di quanto sopra avanzato: la società, come si vedrà nei suoi film, se prima è ben divisa e con una livella sociale che fatica a palesarsi, successivamente mescola le istanze che si davano per buone, le quali magicamente perdono attrito modificando le credenze più recondite dell’essere umano (questo essenzialmente fa la storia).
Claudio Caligari – Una filmografia scarna ma efficace
Claudio Caligari è padre di una filmografia scarna. Inutile negarlo: il dato numerico parla di soli tre lungometraggi. Se si superano le apparenze si ha contezza, tuttavia, di quanto il suo lavoro sia stato in effetti completo, autoriferito ma perfettamente combaciante con gli intenti.
Caligari nasce come documentarista ma presto ha abbandonato questa veste per regalare qualcosa di più: emozioni. Il percorso non è stato facile. Come più volte ha affermato, in risposta a domande del tipo “Perché così pochi film?”, lavorare su un’idea implica anche anni e anni di lavorazione, conditi da più di un singolo ripensamento.
Come altri geni del settore (per citarne alcuni: Sergio Leone e Quentin Tarantino) le mosse di un impianto professionale del genere sono date dal desiderio di creare un meccanismo. I film che ha diretto e scritto sono delle vere e proprie catene, dei magneti che si incontrano continuamente. La storia in effetti segue una cronologia ma ad un certo punto si trasforma in ciclo.
Se si vuole capire qualcosa della sua arte, bisogna considerare i film di Claudio Caligari come opere fluide.
Prima di girare Amore Tossico (il suo primo film, risalente al lontano 1983) l’idea era quella di creare una trilogia che si potesse attaccare al film Accattone, perla di pasoliniana fattezza. Successivamente, pur partendo da quel tipo di poetica, la sua arte si è concentrata su qualcosa di parzialmente più personale. Serviva attinenza con la realtà e per questo viene preso in considerazione per lui anche un periodo post-pasoliniano, ovvero una fase dove non serviva omaggiare, bensì far riflettere.
L’estetica pasoliniana e post-pasoliniana (da Amore tossico a Non essere cattivo)
Claudio Caligari ha improntato le sue opere in stile neorealistico. Ne è pervasa l’intera filmografia. Gli elogi nei confronti dei film nascono dalla capacità di rendere il tutto molto naturale ma senza un’effettiva auto-referenzialità che, si sa, in molti casi rischia di depotenziare la capacità di diversi maestri di cinema.
Il fulcro sono le persone e chiaramente i posti che si trovano ad abitare. Caligari vuole farci capire che quando si vive per tanto tempo in un luogo si diventa quel luogo. Nelle movenze, nelle aspirazioni e nei passatempi più comuni. Non si può togliere il ghetto da chi ci è nato dentro.
Amore tossico e Non essere cattivo sono un perfetto manifesto della sua arte: rappresentano un prima e un dopo. La necessità di seguire il percorso tracciato da Pasolini e quello ineluttabile di superarlo (almeno ad un certo punto).
Amore tossico segna la definitiva scesa in campo dell’eroina a Roma, uno dei mali principali della società post guerre mondiali. Il paese deve essere ricostruito e le lande desolate della periferia romana non offrono tanti spunti per sovvertire un destino che i più poveri hanno già segnato di fronte alle loro vite.
Le giornate trascorrono piatte, insulse, fomentate solo dalla ricerca della roba (nome dannatamente evocativo, quasi fosse una divinità da compiacere).
Quasi identico il registro di Non essere cattivo. Stavolta la storia è ambientata tuttavia negli anni Novanta, il medioevo della società italiana. Il contesto storico non è scelto a caso: ci si trova in un sostanziale rito cronologico di passaggio tra l’epoca pasoliniana delle borgate a quella contemporanea dei palazzoni in cemento.
Le droghe sintetiche hanno sostituito la droga in vena. Così come l’atto del consumo di entrambe le sostanze impone, il tempo è diventato più frenetico. Giornate movimentate, sempre alla ricerca di una svolta, di un singolo elemento di riscatto.
Il classico “buco” necessita di un attimo in più rispetto alla sniffata che può essere data in qualsiasi momento e occasione: non c’è tempo da perdere, il mondo di oggi vuole tutto e lo vuole subito.
Rispetto ad Amore tossico, Non essere cattivo compie un passo in avanti e accetta l’idea che nella vita si possa anche lavorare per uscire dai problemi (speranze che nel primo film i protagonisti non avevano, pur non prendendo minimamente in considerazione la cosa).
Il cerchio poi si chiude e si ritorna comunque alla solita melma: anche qui viene provata l’eroina, presentatasi ai protagonisti (degli eccezionali Alessandro Borghi e Luca Marinelli) come un vecchio fantasma che riappare. Ecco qui, dunque, la ciclicità della storia che si ripete.
Caligari supera la poetica pasoliniana dando allo spettatore un senso di disillusione vero, efficace, spassionato. Si può lavorare, si possono cambiare le cose, ma le persone sono sempre persone e deluderanno sempre sé stesse e gli altri. Come se quei pochi schemi che erano abituati ad avere di botto fossero crollati con un niente.