Cinque voci di donne tessono cinque lungometraggi d’incredibile bellezza che vi lasceranno senza fiato. Dagli esperimenti intimissimi della nouvellevaguiana Varda all’amatissima Sofia Coppola terminando con la sorprendente Coralie Fargeat, questi film vi sveleranno un lato sorprendete del cinema. Donne che osservano il mondo con i loro sguardi unici, donne che vengono raccontate in queste cinque pellicole diversissime ma accomunate dagli occhi delle cineaste e delle loro cineprese.
CLEO DALLE 5 ALLE 7, Agnès Varda (1962)
Classe 1962 e diretto dalla regista icona Agnès Varda, Cleo é un film intimo e delicato che descrive i silenziosi e spaventosi momenti che separano la vita dalla donna da una ( potenzialmente ) terribile notizia: la possibilità di avere un cancro. Lungometraggio dalla forte impronta melodrammatica e tragica, la pellicola é adombrata da un netto sentimento di morte che impedisce di vivere il reale.
Varda confeziona un film leggero ed etereo nelle immagini ma greve e densissimo nei temi dove a brillare di rara bellezza é la sua interprete: Corinne Marchand la quale prima si fa leggere i tarocchi in una prima sequenza meravigliosa poi si riflette in uno specchio mentre prova abiti, fa compere e molto altro ancora pur di celare quell’ansia terrificante che la inchioda. E noi – pietrificati quanto lei – viviamo quella suspance, quel dilatarsi temporale scandito solo da frivolezze e pochi dialoghi. Cleo é poi un personaggio di cui é impossibile non innamorarsi grazie alla bravura di Varda nello scriverla e descriverla. Emerge nella realizzazione del personaggio la penna della regista e il suo ineluttabile sguardo femminile che rendono Cleo estranea da ogni banalizzazione.
Cleo dalle 5 alle 7 attinge indubbiamente dalle lezioni godardiane ma é molto più di questo.
SOMEWHERE, Sofia Coppola (2008)
Da sempre una delle somme voci femminili nel cinema contemporaneo, Sofia Coppola nell’ormai distante 2008 ci donava una gemma rara come lo era Somewhere la cui bellezza venne immediatamente colta alla 67esima mostra del Festival del cinema di Venezia.
Ispirato da alcuni fatti personali, il lungometraggio ha come protagonista Johnny Marco una star del cinema la cui vita glamour ha perduto ogni contatto con la realtà. L’arrivo della figlia undicenne Cleo ( Elle Fanning ) però, lo condurrà a valutare cosa per lui é davvero importante. Rarefatto, morbidissimo nell’utilizzo della luce e della fotografia, quasi romantico, Coppola ritrae il piccolo ecosistema dove i protagonisti sono immersi con limpidezza. Gli umori dei personaggi, le loro emozioni, trasudano con forza attraverso inquadrature di grande suggestione come quella che vede Johnny specchiarsi nella sala trucco prima del ritiro de Il Telegatto. La regista ci offre qui un ritratto veritiero, autentico di un uomo che ci é sempre parso molta superficie e poca sostanza con enorme maestria.
Insomma, Somewhere – grazie all’esperienza della regista stessa – é un film autentico e riflessivo.
LA CHIMERA, Alice Rohrwacher (2023)
Alice Rohrwacher conclude la sua trilogia sulla memoria con un film poetico e pacifico: La Chimera. Al centro Arthur (Josh O’Connor), un giovane archeologo britannico che si ritrova coinvolto in un traffico illegale di reperti archeologici assieme ad un singolare gruppo di tombaroli. L’ambientazione é quella dell’alta Maremma durante gli anni 80, fotografati con una luce sognante e mistica dove i personaggi si muovono inquieti in luoghi talvolta eterei, talvolta scarni e scheletrici ma sempre singolari.
Colpisce, a proposito di questo punto, l’esempio dello spazio della stazione occupato dalle donne che arricchisce il dipinto della regista di un’ulteriore aura, quella politica: “di chi è ora questa?”, “di nessuno e di tutti”, “di nessuno o di tutti?”.
Il lungometraggio della Rohrwacher é abitato da presenze, da spettri vivissimi, da guizzi di bellezza. Sintomatico di ciò é il personaggio dell’allampanatissimo Arthur, un uomo sempre collocato sull’area liminale tra la vita e la morte. Congiunto da un filo rosso che lo trattiene in perfetto equilibrio tra concretezza e rarefazione. Bellissimo film quello della Rohrwacher che con la mano d’una sensibile autrice ci immerge nel suo affresco dove avvertiamo l’intensità di ogni elemento.
YOU WERE NEVER REALLY HERE, Lynne Ramsay (2017)
Incensato a Cannes e definito da molti come “un taxi driver contemporaneo”, You Were Never Really Here é il film che consacra Lynne Ramsay come una delle voci più riconoscibili ed autentiche del cinema odierno. Avvalendosi di un Joaquin Phoenix quasi primitivo e animalesco, sicuramente glaciale, la regista tesse un racconto laconico ed amaro.
Al centro della vicenda Joe ( Joaquin Phoenix ) un ex veterano di guerra afflitto dalla sindrome di stress post-traumatica che lavora come sicario contro la criminalità organizzata ed il traffico di minori. In un’esistenza scandita da violenza e brutalità la sua unica fonte di sollievo é la madre anziana e non più autosufficiente.
La Ramsay tratteggia con maestria e dolore un personaggio – quello di Joe – fortemente traumatizzato, incapace di evoluzione e condotto a ripetere sistematicamente i traumi subiti. Incapace di comunicare con gli altri, il senso di solitudine é acuito dalla vertigine caos cittadino che lo rende a sé avulso. Ricco di analessi e prolessi, la regia rimane asettica e distante dinanzi alla brutalità dilagante e pulp del lungometraggio. Film duro ma dalla regia riconoscibilissima, é il compimento di una regista matura.
REVENGE, Coralie Fargeat (2017)
Pop, violentissimo ma sopratutto audace, Coralie Fargeat si dimostrava un’autrice di enorme pregio già prima dell’istant-cult The Substance (2024). Attingendo da un genere cinematografico di grande complessità – ossia quello del rape and revenge movie – la regista traccia il proprio film attorno alla figura di Jen ( Matilda Lutz ) una socialite che subisce un violento stupro da degli uomini amici del proprio amante. Minacciando di denunciare l’avvenimento alla polizia, questi l’assalgono crudelmente fino a pensarla deceduta. Tuttavia Jen é tutt’altro che morta e mieterà una tremenda vendetta.
Fargeat – grazie ad un profondo studio del materiale – non scivola mai nello stereotipo di genere tantomeno nel viscido gioco dell’oggettificazione ribaltando piuttosto i ruoli di genere in maniera brillante e mantenendo ben salde le premesse iniziali. Di una bellezza visiva abbacinante, patinato e glamour ma anche sporco e ruvido, Revenge detiene un perfetto equilibrio tra gore e bellezza autentica.
Matilda Lutz intensissima e sensuale in questo ruolo determinante per la propria carriera mentre, la controparte maschile ne emerge (volutamente ) fragile e depotenziata al confronto benché sia di grande tensione il finale che sancisce la più totale e vincente scelta del female gaze. Donne che osservano, divorano, vendicano.