In un panorama contemporaneo quale è quello odierno la concomitanza di dinamiche produttive e creative ha accentuato la tendenza alla difficile emersione di figure autoriali che si rendano note in quanto tali. Non è un caso se, in effetti, con il passare degli anni un numero sempre crescente di sceneggiatori si è visto costretto a dedicarsi al ramo registico per riuscire ad elevare il proprio statuto: lo testimonia l’esperienza più recente di Aaron Sorkin, sceneggiatore prestato alla macchina da presa in tempi non lontani (per Molly’s game, Il processo ai Chicago 7 e Being the Ricardos), ma lo dimostrano anche i casi più eclatanti e probabilmente più significativi costituiti da figure del calibro di Wes Anderson, Spike Lee o Quentin Tarantino.
In quest’ottica, può oggi uno sceneggiatore arrivare a raggiungere una fama tale da diventare un volto (o quantomeno un nome) noto al grande pubblico e non solo alle nicchie? L’impresa è ardua, ma non impossibile, come testimonia il caso – indubbiamente raro – di Charlie Kaufman. L’autore è riuscito a distinguersi negli anni, assurgendo per gradi sino a raggiungere le più alte sfere dell’élite filmica contemporanea, diventando una delle firme più conosciute e apprezzate della Hollywood di oggi e superando in fama un gran numero di registi (innegabilmente avvantaggiati sul fronte notorietà in ragione della professione da loro svolta). Non una carriera data dalla mera fortuna, indubbiamente, ma il frutto dell’azione congiunta di più fattori che si ripresentano sistematici nello svilupparsi della sua filmografia: un’attenzione al metodo narrativo, uno stampo autoriale personalissimo e a suo modo rivoluzionario, incentrato su una chiave marcatamente psicoanalitica, e una cura meticolosa nella scelta dei collaboratori.
L’esordio dirompente di Charlie Kaufman – Essere John Malkovich
A quarant’anni compiuti, nel 1999 Charlie Kaufman irrompe nello scenario hollywoodiano firmando il suo primo lungometraggio, Essere John Malkovich, un’operazione filmica coraggiosa, irriverente e assolutamente fresca dal punto di vista narrativo. Nel film un burattinaio in disgrazia, assunto da una curiosa azienda, trova in un recondito pertugio del suo ufficio un portale capace di far accedere direttamente chiunque vi faccia ingresso alla psiche di John Malkovich. Il progetto, in cantiere già dal 1995, ha visto la prospettiva di una realizzazione solo due anni dopo per mano della regia di Spike Jonze, anch’egli esordiente. Sulla carta il film è una scommessa rischiosa in termini produttivi: un doppio debutto, registico e autoriale, al servizio di una trama tutt’altro che pop, difficilmente apprezzabile dalle masse. Ma, per quanto pericolosa, si dimostra una scommessa vincente, ottenendo persino tre nomination agli Oscar, tra cui quella alla miglior regia e alla miglior sceneggiatura originale.
I due esordienti non guadagnano alcuna statuetta, ma la pellicola – e il clamore da esso conseguito – diventa un biglietto da visita di tutto rispetto, che apre loro la strada ad una carriera florida. Non meno importante, il lungometraggio contiene già una serie di caratteristiche dell’autorialità di Kaufman che, per quanto in nuce, si palesano in modo tutt’altro che timido: il gusto per l’irreale, per l’assurdo in accezione prettamente beckettiana, ma anche l’attenzione per le dinamiche della psiche umana – figlie dirette di teorie freudiane se non forse, ancor più marcatamente, junghiane – e la necessità di un’aprioristica sospensione dell’incredulità. La scrittura di Kaufman già incuriosisce il pubblico ma soprattutto la critica, che però inevitabilmente si domanda se si tratti di un classico caso di fortuna del principiante o di una qualità di sceneggiatura capace di rivoluzionare la scrittura per il cinema.
Conferme parziali e definitive – Human nature e Adaptation
Sulla scia del successo ottenuto con la sua prima sceneggiatura, Charlie Kaufman ne firma una seconda, Human Nature, che diventa un film nel 2001. La regia è affidata a Michel Gondry, che come Jonze si rivelerà collaboratore fidato nonché figura chiave nel percorso dello sceneggiatore. La narrazione si instaura a partire dal triangolo amoroso che lega i curiosi protagonisti: Nathan, uno scienziato ai limiti della sociopatia, Lila, una donna che per anni ha vissuto nella realtà più selvaggia, e Puff, un individuo che rifugge la società. Con questa pellicola l’autore si dimostra fedele ad una certa matrice di scrittura tendente all’assurdo, anche se in chiave meno debordante rispetto al suo esordio. Altrettanto importante, tuttavia, come questo film – forse più ancora del precedente, a suo modo probabilmente troppo rivoluzionario sul piano tematico per lasciar trasparire una struttura tradizionale – metta in luce l’attenzione dell’autore per i canoni e le regole della sceneggiatura.
Kaufman si rifa a precedenti illustri, studia i metodi, le tecniche e i paradigmi, come dimostra la struttura di Human nature: la pellicola si articola come dovrebbe (in senso prettamente manualistico), collocando i colpi di scena al momento giusto e concedendo al pubblico un senso di familiarità – nonostante la lontananza dei temi trattati – che lo avvicina al prodotto. Il film in sé non può definirsi certo un insuccesso, ma la portata illuminante del suo esordio paradossalmente danneggia Kaufman e il suo secondo film, e il confronto gioca a favore di Essere John Malkovich. Ciononostante, Human nature si rivela – in parte anche con il passare del tempo – uno scalino fondamentale e a suo modo necessario nel corpus autoriale dello sceneggiatore, che gli permette di collaudare quelle stesse peculiarità di scrittura che lo renderanno celebre dimostrando al contempo come il suo talento sia frutto di un accorto studio del metodo che lo ha preceduto.
Meno di un anno dopo, con Adaptation (Il ladro di orchidee, in italiano), giunge la conferma vera e propria, quella che il pubblico e la critica attendevano dal 1999. L’autore torna alla qualità di scrittura che aveva piacevolmente sconvolto i suoi spettatori al momento del suo esordio, sviluppando due tematiche che ben conosce: la sceneggiatura e la psicoanalisi. Per farlo, decide – scelta curiosa ma indubbiamente vincente – di costruire il film attorno ad un protagonista che altri non è se non la versione sdoppiata di se stesso, con una duplice interpretazione di Nicolas Cage nei panni di Charlie Kaufman e del fittizio gemello Donald Kaufman. Nella più squisita delle variazioni sul tema meta-cinematografico, il protagonista a seguito dell’eclatante successo del suo film d’esordio affronta un blocco dello scrittore apparentemente irrisolvibile proprio quando gli viene commissionata la trasposizione cinematografica di Il ladro di orchidee.
L’operazione autoriale che Adaptation comporta è delle più rischiose e lo sceneggiatore ne è ben consapevole, tanto da scegliere di tenere nascosto il progetto alla produzione sino all’inizio delle riprese. Ma, alcuni diranno “miracolosamente”, la scommessa risulta ancora una volta vincente, e la pellicola viene nuovamente acclamata sia dal pubblico che, soprattutto, dalla critica. In realtà, di miracoloso c’è poco (se non nulla) perché il successo, per quanto insperato, poggia su delle basi solide: un rapporto quasi simbiotico con la figura registica – ancora una volta, Spike Jonze – e una qualità di scrittura personale, ben delineata e sorprendentemente lucida, pur nella sua stupefacente originalità.
L’eccezione che conferma la regola – Confessioni di una mente pericolosa
Come in ogni carriera che si rispetti, il passo falso è dietro l’angolo anche per Charlie Kaufman. Già nel 1997, infatti, gli era stata commissionata la stesura dello script per il fantasioso biopic sul conduttore televisivo Chuck Barris, dal titolo Confessioni di una mente pericolosa: un film, per sua natura, inevitabilmente più tradizionale e meno pertinente alla sfera dell’irrealtà rispetto ai lavori precedenti dello sceneggiatore. Ciononostante, quest’ultimo si dimostra capace di inserire nei suoi drafts la medesima cura per la metodologia e la stessa chiave psicoanalitica delle sue opere precedenti. Nel 2002 l’opera diventa un lungometraggio compiuto, nonché l’esordio alla regia di George Clooney. A visione ultimata gran parte del pubblico ha riscontrato, a ragione, non poche difficoltà nel ricollegare la pellicola alla stessa penna di Adaptation o Essere John Malkovich.
Questo perché la produzione e l’operato da neofita dell’esordiente regista hanno drasticamente rivoluzionato nel corso della lavorazione lo script di Kaufman, finendo per contribuire alla realizzazione di un’opera ultima da cui lo sceneggiatore stesso non ha tardato a prendere le distanze. Nonostante l’evidente attrito in fase di realizzazione, che ha condotto ad un lungometraggio ultimato non pienamente in linea con il corpus dell’autore, il film non manca di poter vantare quella stessa capacità di approfondimento della psiche del protagonista che aveva segnato alcune delle sue opere precedenti. Questa capacità, unita ad un rigore ancor più didascalico nel seguire le tradizionali regole della sceneggiatura, hanno portato a rafforzare l’identità autoriale di Kaufman, sebbene siano al contempo confluite in un prodotto drasticamente distante dai suoi intenti iniziali.
Charlie Kaufman e l’apogeo di una carriera autoriale encomiabile – Eternal sunshine of the spotless mind
Risollevarsi da un parziale insuccesso è complicato (forse ancor di più per nomi tanto acclamati) ma Charlie Kaufman riesce a farlo – e in grande stile – portando a compimento la sceneggiatura di Eternal sunshine of the spotless mind, l’ormai cult del 2004 con Jim Carrey e Kate Winslet. Dietro la macchina da presa, ancora una volta dopo la collaborazione per Human nature, torna Michel Gondry, che in questa occasione contribuisce anche alla stesura del soggetto. La pellicola è catalizzante, a suo modo rivoluzionaria, accattiva il pubblico e affascina la critica, permettendo a Kaufman di guadagnarsi la tanto ambita statuetta per la Miglior sceneggiatura originale agli Oscar del 2005.
Ma, al di là del certamente meritato Academy Award, lo statuto del lungometraggio è monumentale per ragioni plurime, prima fra tutte la qualità della scrittura. Eternal sunshine è per il suo autore un meraviglioso esercizio di stile (certamente non fine a se stesso), che gli permette di misurarsi con tematiche a lui care ampliandole, espandendole e rendendole di primissimo piano in una vicenda tutt’altro che scontata. Lo studio della psiche umana si slabbra sino a comprendere l’analisi del subconscio e dei meccanismi ad esso connessi – in primis, certamente, quelli della memoria – contribuendo alla realizzazione di quello che può senza dubbio alcuno definirsi un trattato di filosofia su pellicola, diviso in fotogrammi al secondo anziché in capitoli. Grazie ad una scrittura sempre fedele a se stessa, ma mai scontata o banale, lo statuto dello sceneggiatore appare, una volta per tutte, debitamente consolidato.
Charlie Kaufman e le prove di regia – Synecdoche, New York, Anomalisa e I’m thinking of ending things
All’apice del successo, quando il suo nome e il suo volto erano già più che noti grazie al suo lavoro in qualità di sceneggiatore, l’autore decide di sperimentare con la regia. Ciò che risulta curioso, tuttavia, è che nonostante le sue lodevoli prove dietro alla macchina da presa, il suo nome sarà destinato a rimanere legato alla disciplina sceneggiatoria, e le pellicole che realizzerà saranno marcatamente sue in senso prima autoriale che registico, mantenendolo ben saldo al campo di cui è figlio. Emblematico in questo senso è il caso di Synecdoche, New York (2008), suo esordio dietro alla macchina da presa ma, prima ancora, iperbolico manifesto delle sue tendenze narrative. Il film è un monumento allo studio psicoanalitico in chiave meta-filmica, nella misura in cui esplora, lasciandogli completamente carta bianca, l’Es del suo protagonista intrecciandone sapientemente ricordi, sogni, subconscio, idee, desideri e frustrazioni.
Altrettanto accade nel 2015 con Anomalisa, lungometraggio d’animazione in stop-motion da lui scritto e co-diretto, congiuntamente con Duke Johnson. Prima ancora di essere una regia di Charlie Kaufman, il film è una sua sceneggiatura in piena regola, uno studio del personaggio in cui nulla è lasciato al caso (nel rispetto della metodologia autoriale per il cinema), l’esplorazione di una psiche turbolenta e intrinsecamente danneggiata ma anche un’opera meta-produttiva in cui l’utilizzo di maschere assume un significato narrativo ben preciso e strettamente necessario. Ancora una volta la qualità della scrittura di Kaufman rimane fedele a se stessa (il riferimento è allo studio del conscio e del subconscio) e al contempo si rinnova, rivelandosi nuovamente sorprendente, in questo caso grazie all’esplorazione di alcune zone d’ombra della mente umana.
La medesima chiave di lettura si colloca alla base del suo ultimo film (per il momento), I’m thinking of ending things (2020), ancora una volta da lui diretto. In questo caso, l’apporto del subconscio a livello narrativo è tale da garantire alla pellicola l’etichetta di film “surrealista”. La scrittura, con lo scorrere del minutaggio, si abbandona ad uno sfumare dei confini della coerenza narrativa lasciando spazio ad un fluire ininterrotto di suggestioni e simboli, ad un altalenare imperituro di presente, passato e futuro, in cui l’apparente nonsense altro non è che una lucida (per quanto possibile) e meticolosa ricerca sulla realtà della condizione umana, coadiuvata da un assurdo – il riferimento, imprescindibile, è ancora una volta all’absurd theatre di Beckett – al contempo catartico e sensazionale.
In definitiva, la straordinarietà del suo percorso e del suo corpus operistico hanno permesso di associare il nome di Charlie Kaufman, prima ancora che a determinate esperienze registiche, ad un tipo di autorialità tanto personale quanto solida. Con gli anni, le sue sceneggiature – alcune più riuscite, altre meno, ma tutte indubbiamente valide – hanno fatto emergere una qualità di scrittura impeccabile, un inconfondibile stampo alla Kaufman, fatto di sperimentazione, studio della psiche, paradossale irrealtà e meta-narrazione, ma anche di conoscenza del campo trattato e (nonostante la portata rivoluzionaria del suo lavoro) rispetto della metodologia alla base della sceneggiatura in quanto disciplina. Questi elementi ricorrenti nella sua filmografia, congiuntamente, hanno contribuito a rendere Kaufman uno dei più grandi sceneggiatori del cinema contemporaneo.