Giunge nel 2009, per la regia di Daniel Monzón, la trasposizione omonima sul grande schermo di Cella 211, romanzo di Francisco Pérez Gandul. Alla sceneggiatura del progetto ha lavorato lo stesso regista, in collaborazione con Jorge Guerricaechevarría. Il film, ambientato in un carcere in cui scoppia una rivolta, riunisce in sé svariati generi tra cui l’action, il dramma e un andamento di tensione. Con il suo andamento situazionale controverso e peculiare, il film tiene col fiato sospeso denunciando al contempo le falle di un sistema viziato e corrotto. A prestare i volti ai protagonisti della vicenda sono Alberto Ammann e Luis Tosar. A seguito della sua distribuzione, la pellicola ha fatto nel 2010 incetta di premi Goya in tutte le categorie principali della cerimonia (miglior film, regia, attori, sceneggiatura e sonoro). Attualmente, il lungometraggio è reperibile per lo streaming agli abbonati di Sky e Now.
Cella 211 – La trama del film
Il giovane Juan Oliver (Alberto Ammann) sta per iniziare il suo impiego di guardia carceraria. Zelante e instancabile, il giorno prima di iniziare si reca alla prigione, sebbene non gli sia richiesto, per prendere confidenza con l’ambiente. Certo non si può immaginare quale piega prenderà la sua giornata quando lascia la propria dimora al mattino salutando Elena (Marta Etura), la compagna incinta di sei mesi di cui è profondamente innamorato. Il caso vuole infatti che proprio nel giorno in cui Juan si reca di sua spontanea volontà al carcere, lì esploda una rivolta incontenibile. Colpito alla testa da dell’intonaco caduto, il giovane viene momentaneamente portato dai futuri colleghi in una cella – la Cella 211 del titolo – per evitare che perda i sensi, e proprio in quel momento scoppia l’evento inaspettato. Le guardie si allontanano presto da lui, temendo per le sorti della propria vita in balia dei detenuti.
Juan si vede così costretto a rimanere nella palazzina occupata, circondato da prigionieri che non conoscono il suo volto. Con sorprendente prontezza, quando è solo nasconde i baluardi della propria libertà (la cintura, la fede, le stringhe delle scarpe) e si presenta ai carcerati come un loro pari appena arrivato, per prendere tempo in modo da sopravvivere mentre le guardie dall’esterno escogitano uno stratagemma per farlo uscire. Il leader dei detenuti, Malamadre (Luis Tosar) ne apprezza l’atteggiamento e la personalità, non tardando a prenderlo a ben volere. Così, fra i sospetti crescenti dei più stretti alleati di Malamadre, Juan si ritaglia un suo angolo di sicurezza conquistandosi la fiducia del capo della rivolta. Mentre la ribellione segue il suo corso complesso, il protagonista in balia degli eventi vive guardingo nel terrore che il suo inganno sia scoperto. La sua maschera reggerà al complicarsi della ribellione?
Cella 211 – La recensione
Che l’audiovisivo spagnolo possegga uno stampo proprio e assolutamente riconoscibile è indubbio. Si basa su una crudezza senza pari, brutale e onesta, che se negli horror sfocia in cieco e credibile terrore nei film di tensione invece si manifesta in atmosfere dense, elettriche (riprova più recente ne è ad esempio il riuscitissimo As bestas di Rodrigo Sorogoyen). Anche nel caso di Cella 211, questo stampo di autentica durezza non tarda ad emergere. E non compare, beninteso, solo nelle sezioni di violenza corporale più esplicita, ma anche nel clima generale dello sviluppo. Dal momento in cui percepiamo la complessità della situazione in cui è collocato il protagonista, per cause da lui esterne e imprevedibili, ogni istante è uno spillo che pizzica la nostra percezione globale di quella che è l’esperienza di visione.
L’atmosfera è più che tesa, atterrisce, così come ogni nuovo risvolto narrativo ha i margini di imporsi a salvezza o condanna del protagonista. Certo è per contro doveroso ammettere che la regia di Daniel Monzón contribuisce poco all’esaltazione di questa matrice così carica di intenti. La sua macchina da presa lavora in modo sì pulito ma forse eccessivamente lineare, senza osare molto. L’impressione complessiva è che finisca col registrare quasi passivamente gli eventi, senza un vero e proprio quid cinematografico. Si configura così per Cella 211 una regia quasi da fiction televisiva, che lascia emergere con forza il debito nei confronti di quella che è la produzione targata Telecinco.
Quando la scrittura fa la differenza
Il riconoscibilissimo stampo spagnolo composto di angoscia e tensione permette il costituirsi di un solido imprinting con lo spettatore. E, venendo debitamente incarnato da interpretazioni cariche di pathos, si protrae strutturalmente su tutto il minutaggio del film senza venir meno neppure un istante. Ma dove Cella 211 gioca la sua carta vincente è in sede di scrittura. Lo script del film si concentra su un elemento fondante della scrittura per il cinema, quello del task – la missione che il protagonista deve compiere per riuscire a raggiungere l’obiettivo – e lo eleva a pilastro fondante di tutto il film. Il task di Juan gli è repellente e contrario alla sua natura, poiché lo porta a fraternizzare con coloro che dovrebbe controllare e a ripudiare il mondo dei colleghi e delle forze dell’ordine.
Si configura dunque per lui come particolarmente complesso, e la difficoltà da lui provata ci giunge in modo concreto, alimentando il rapporto di empatia nei suoi confronti. Ma lo stesso task viene problematicizzato, portando ad un nuovo allineamento dei valori di Juan. Il protagonista, costretto a fingere, vive così sulla propria pelle i vizi di un sistema che a causa dei suoi pari sembra passare dalla parte del torto, e verso cui diventa perciò impossibile chiudere un occhio. Non è dunque la regia, pur lineare, il punto di forza del godibile Cella 211, ma una scrittura che prendo spunto dalle basi della disciplina della sceneggiatura gioca con elementi canonici portandoli alle estreme conseguenze. Così facendo, il film finisce per sfociare in una dinamica di denuncia, mantenendoci contemporaneamente con il fiato sospeso per le sorti del protagonista.