Nel 2020, il regista e sceneggiatore Josh Trank porta a compimento il suo terzo film, Capone, dopo essersi cimentato nella realizzazione dei precedenti Chronicle e Fantastic 4 – I fantastici 4. Come si evince dal titolo, si tratta di una pellicola biografica, il cosiddetto biopic ampiamente riportato in auge negli ultimi anni (Spencer, Judy, Bohemian Rapsody, Pasolini, La teoria del tutto, Mary Shelley, Hammamet). Protagonista della vicenda è l’iconico gangster italo-statunitense Al Capone, su cui negli anni il cinema ha ampiamente ricamato. Il lungometraggio dura 104 minuti.
La trama del film
Nel 1947 un quarantottenne Al Capone (Tom Hardy) conduce una vita ritirata in California, trascorrendo le sue giornate tra le allucinazioni e i tracolli psicofisici, a causa della demenza generata dalla sifilide di cui è preda. Il leggendario gangster, chiamato Fonse (“Fonzo” in italiano) da amici e famiglia, vive ormai nell’ombra dei suoi anni migliori. La sua lussuosa villa, di cui è costretto a vendere le statue per ricavare denaro ritrovatosi in un’inattesa condizione di prossimità alla povertà, è metafora della sua stessa esistenza, spettro di uno sfarzoso passato ormai tristemente remoto. Ad affiancarlo nel suo quotidiano la moglie Mae (Linda Cardellini) che, ancora ben presente a se stessa, tiene le fila della gestione domestica. Quando Capone sospetterà di essere oggetto di una sorveglianza segreta effettuata dalla CIA le sue paranoie si ingigantiscono, offuscando la sua già nebbiosa percezione del reale. Le ansie per l’indagine si sommano ai pensieri relativi ad un presunto figlio illegittimo abbandonato portando il gangster sulla via dell’ictus e della confusione mentale, che determineranno il declino della leggenda.
Il protagonista di Capone
Se già per sua natura il protagonista ha ruolo di rilievo nell’economia della narrazione, il caso dei film biografici eleva esponenzialmente lo statuto del protagonista, rendendolo dominante non solo nei confronti degli altri personaggi ma talvolta anche in quelli della storia. Nel caso di questo lungometraggio, la figura del protagonista può contare su un interprete di prim’ordine, ampiamente apprezzato nel panorama cinematografico contemporaneo: Tom Hardy (Locke, Mad Max: Fury road, Inception, Il cavaliere oscuro – il ritorno, Venom e il successivo La furia di Carnage). Anche in questo caso, la performance di Hardy è indubbiamente buona – anche se forse non la sua migliore. Nel suo lavoro di mimesi nei confronti di Capone, Tom Hardy viene sì aiutato dalla gestualità e dalle sue doti attoriali, ma anche da un’impareggiabile capacità di modulazione della voce (che già aveva reso il suo Alfie Solomons una delle più gradite componenti di Peaky Blinders).
Per quanto riguarda le movenze, invece, Hardy fa proprio il bagaglio gestuale della tradizione filmica gangsteristica. Nei suoi gesti (specialmente quelli della sanguinosa sequenza finale) si avverte certo l’eco del paciniano Tony Montana di Scarface, ma il retaggio arriva persino da tempi più antichi. Nella sicura e deliberatamente arrogante gestualità dell’attore inglese si scorge infatti l’influenza delle grandi interpretazioni del gangster movie, quelle in primis di Edward G. Robinson (il Piccolo Cesare dell’omonimo film del ‘31), di James Cagney (Tom Powers in Nemico pubblico, ancora 1931) e di Paul Muni nell’originario Scarface (Hawks, 1932). Purtroppo, il lavoro di Hardy è svilito da un make-up decisamente importante, necessario per far collimare attore e personaggio ma estremamente – e perennemente – evidente, quasi posticcio, che conferisce al lavoro finale una patina di artificiosità difficile da porre in secondo piano nel corso della visione.
Ad affiancarlo sullo schermo l’elegante e sempre efficace Linda Cardellini. Esaminando la sua filmografia, pare che l’attrice sia prevalentemente destinata a interpretare ruoli secondari, e questa pellicola conferma tale teoria. In Capone Cardellini agisce, per quanto magistralmente, nell’ombra di Hardy, costretta nuovamente (dopo Green book, Farrelly, 2018) al ruolo di moglie del protagonista italo-americano (qua il gangster, là il Frank Vallelonga di Viggo Mortensen). Fortunatamente, per quanto limitato, questo film concede comunque più spazio d’azione all’attrice rispetto al precedente menzionato, permettendole di mettere in luce un più ampio range emotivo nonché doti performative indiscutibili. L’attrice oscilla tra preoccupazione e rabbia, affetto e frustrazione, al fianco di un uomo in pieno decadimento fisico e mentale, confermando con la sua interpretazione di essere stata la giusta scelta per un ruolo, purtroppo, secondario.
La regia di Capone
Al suo terzo film, Josh Trank non può propriamente dire di aver enucleato nel dettaglio un proprio stile registico, personale e riconoscibile. A prodotto ultimato, la regia può dirsi indubbiamente lineare, limpida e quindi certo non sgradevole. Allo stesso modo, però, il lavoro della macchina da presa non costituisce un elemento di particolare valorizzazione della storia ma semplicemente si limita a narrarla, elementarmente. Solo in alcune occasioni la regia ha modo di sperimentare, risultando comunque più lodevole che nel resto del film. Su tutte, la sequenza onirica si distingue per il lavoro della macchina da presa (che comunque pecca di qualche lievissima ma più che perdonabile ingenuità prospettica).
In questo senso, Capone è la dimostrazione di come il valore di un film non possa unicamente poggiare sulle spalle dei propri interpreti, per quanto bravi. Il progetto alla base della pellicola è certamente allettante – sia per il pubblico che per gli attori che vi prendono parte, trattandosi di un cast di prim’ordine. Il risultato complessivo, per quanto certo non sgradevole, appare comunque leggermente incerto; il film non sconvolge lo spettatore ma comunque riesce nel suo intento narrativo, risultando complessivamente un buon intrattenimento.