Big Fish – Le storie di una vita incredibile, ovvero la memoria secondo Tim Burton. Nel 2003 il cineasta di Burbank smette per un po’ i panni di affabulatore numero uno della sua generazione per realizzare una pellicola dal sapore più realista e terreno, sulla falsa riga di quanto fece, nove anni prima, con il suo Ed Wood.
Big Fish – Trama
Big Fish, che in italiano è accompagnato dal sottotitolo Le storie di una vita incredibile, è tratto dall’omonimo romanzo di Daniel Wallace e racconta di Will Bloom (Billy Crudup), cinico businessman che ha rotto ogni ponte con il padre Edward (Albert Finney), colpevole, secondo lui, di vivere in un suo mondo, fatto di storie bizzarre, e di avergli perennemente mentito. Quando però, dopo tre anni di lontananza, Will capisce che il padre sta per morire di cancro, insieme alla moglie francese Josephine (Marion Cotillard), ritorna ad Ashton, la cittadina dell’Alabama dov’è nato, per cercare di salutarlo nel modo migliore. Troverà lo stesso tipo di uomo che aveva lasciato, sempre inesorabilmente volenteroso di raccontare le fantastiche avventure della sua vita.
Tra di esse spiccano la visione della propria morte nell’occhio di una strega, la cattura di un pesce gatto gigante usando come esca la sola fede nuziale, e il lavoro in un circo, dove ha conosciuto l’amore della sua vita. Will capirà che quelle storie non sono semplici bugie, ma vere e proprie lezioni di vita di un uomo consacrato alla narrazione, un po’ come si propone da sempre di essere il regista.
La trama è di per sé elementare, ma è resa più complessa dal modo in cui il regista, e soprattutto lo sceneggiatore (il “solito” John August) l’hanno architettata, fondendo di fatto la realtà diegetica e poco spettacolare con i flashback del giovane Edward (Ewan McGregor), che vive una miriade di avventure meravigliose, in puro stile Burton.
Big Fish – Recensione
Indubbiamente, un film come Big Fish coglie certamente di sorpresa i fan di Tim Burton, e lo fa fin dalle sue prime battute. Vedere una scena di matrimonio “consueta”, senza una qualche particolarità e con discorsi tutto sommato abituali, fa pensare di aver sbagliato sala o tasto, e di essere di fronte ad un altro film e un altro regista. Poi però cominciano i flashback, l’illuminazione si fa più vivace e meno realistica, la fotografia e il décor più fantasiosi, e immediatamente ci rendiamo conto di essere ritornati nel mondo di Burton, con le sue solite caratteristiche strampalate.
Big Fish funziona esattamente così; è un continuo ping pong tra l’onirismo favoloso di un genio del cinema contemporaneo, e il più classico dei drammi padre-figlio, senza picchi e con un largo utilizzo dei clichè tradizionali per mettere in chiaro i rapporti tra i personaggi. A essere protagonista nel film, per una volta, non è l’aspetto visivo, fatto di protagonisti fantastici in un mondo meraviglioso con una missione da compiere, ma quello morale, del messaggio definitivo che la pellicola vuole lasciare. Tutti noi siamo fatti di storie, su questo non ci si può fare nulla.
Il percorso di una vita meravigliosa
Il messaggio profondo della pellicola ricorda quello di un film particolarmente discusso in sede critica, come Al di là dei sogni, in cui uno splendido Robin Williams indagava su temi quali la morte e la reincarnazione, e ha in comune con quello il contesto funebre, in quel caso improvviso in quello di Big Fish atteso.
Il percorso che compie Will durante il corso del film è simile a quello dell’eroe adolescente di un qualsiasi romanzo di formazione, e sotto questo punto di vista, la pellicola è profondamente burtoniana. Ciò che Will ha sempre rimproverato al padre è il fatto di aver costantemente dato più importanza alle sue fantasie (che per lui sono semplici bugie) che ad una tradizionale educazione nei suoi confronti, fatta di insegnamenti pragmatici e di discorsi seri.
Di fatto, quindi, rinfaccia ad Edward di non avergli fornito le premesse per vivere un periodo importante come l’adolescenza a tempo debito. E quindi è costretto a fare i conti con la crescita personale tipica dei teenager solo ora, quando il padre sta morendo e quando lui stesso, adulto, sta per diventare genitore. Come in ogni altro film di Burton, dietro la superficie c’è molto di più.
Esattamente come accade in ogni film del cineasta di Burbank, le storie non sono mai monocordi, ma nascondono ogni volta tematiche più complesse e profonde, che non si potrebbero esaurire nemmeno con un film interamente a loro dedicato.
Incredibili avventure immerse in un mondo di fantasia
In Big Fish vengono affrontate questioni quali il rapporto uomo-morte (nell’episodio dell’occhio della strega, interpretata dalla musa di Burton Helena Bonham Carter), il provincialismo e la voglia di riscatto in una grande città (l’episodio del gigante), l’amore romantico e disperato, con l’oggetto del desiderio lontano, da conquistare col sacrificio e con l’astuzia.
Queste e altre numerose suggestioni universali e attualissime per qualsiasi spettatore, Burton le porta in scena sempre sfruttando la componente fantastica del film, attraverso le incredibili avventure che Edward ha vissuto nel corso della propria esistenza. Ancora una volta il regista esprime con forza quello che è il suo credo massimo: l’unico modo sensato per raccontare la contemporaneità è ricorrere alla fantasia.
Solo attraverso l’incredibile si può descrivere appieno il mondo di oggi e di ogni tempo. E infatti, la parte “realista” del film non insegna e definisce nulla, almeno fino a quando non sfocia parzialmente in quella onirica, verso la fine del film. Che ciò sia un messaggio ottimista o pessimista sta al singolo spettatore stabilirlo.
Big Fish: l’aspetto produttivo
Occorre poi soffermarsi sull’aspetto produttivo di Big Fish. Tutto parte dalla sceneggiatura di John August, che, in seguito alla morte del padre, assunse i diritti del romanzo di Wallace per scriverne un film. Il copione, da subito in mano alla Columbia, colpì molto la produzione, che subito si adoperò per trovare registi e interpreti adatti.
Si pensò in prima istanza all’accoppiata Steven Spielberg-Jack Nicholson, con quest’ultimo che avrebbe dovuto interpretare sia l’Edward anziano, sia quello giovane, con un processo di ringiovanimento tramite computer per l’epoca a dir poco ambizioso.
In seguito all’abbandono da parte del regista di Jurassic Park, si pensò per un breve periodo a Stephen Daldry, uno dei registi del momento dato il recente successo del suo Billy Elliot e The Hours, prima che la sceneggiatura arrivasse nelle mani di Tim Burton. Due furono i motivi che spinsero il futuro creatore de La Fabbrica di cioccolato, ad accettare il progetto: la volontà di fare un girare un film non troppo impegnativo, dopo l’immane fatica non esattamente fortunata del suo Il Pianeta delle scimmie, e la perdita di entrambi i genitori, tra il 2000 e il 2002, con cui non ebbe mai un rapporto felicissimo, ma della cui morte soffrì molto.
Il risultato finale è esattamente il film che Burton aveva in mente, soprattutto dal punto di vista della gestione delle forze durante le riprese.
Curiosità
Per risparmiare tempo e denaro il regista decise di fare ricorso il meno possibile agli effetti speciali digitali, in favore dei vecchi trucchi artigianali.
Per far sembrare ancora più maestoso il gigante (interpretato da un attore alto due metri e ventinove), Burton ricorse alla prospettiva forzata nelle scene con lui ed Ewan McGregor. Inoltre molte parti del film furono completamente improvvisate, come l’esilarante sequenza di Edward nella Guerra di Corea (dove la colonna sonora del sempre ottimo Danny Elfman raggiunge l’apice grazie al geniale ricorso alla hit All shook up di Elvis Presley).
Considerazioni Finali
Big Fish è il film perfetto da guardare quando si subisce un lutto. C’è una dolcezza di fondo che si sposa con la componente drammatica in maniera incredibile, come pochi cineasti di oggi riuscirebbero a fare. Il finale è un inno di speranza per tutti.
Quando un nostro caro se ne va, finiamo sempre per ricordarlo, più che attraverso la sua immagine, attraverso le storie che ci ha sempre raccontato. Che esse siano autentiche o esagerate, tutto sommato, non è così rilevante. Siamo fatti di storie, sia noi che la nostra memoria. Solo quelle contano davvero.