Barry Lyndon di Stanley Kubrick, genio indiscusso del cinema del XX secolo, è un film tratto dal romanzo picaresco di William Thackeray Le memorie di Barry Lyndon, del 1844.
Dopo l’affresco di un mondo dominato dalla violenza in Arancia Meccanica, Stanley Kubrick torna al cinema, nel 1975, con un film storico di genere drammatico ambientato nell’Europa della guerra dei sette anni prima, e dell’anno fatidico per la storia, il 1789, nel suo malinconico ma veritiero finale.
Stroncato da gran parte della critica alla sua uscita, considerato un esercizio di stile, addirittura “un libro di fotografia da 11 milioni di dollari”, Barry Lyndon è in realtà un capolavoro.
Un film che riflette sull’arte e sulla storia, sulla società e sul denaro, con uno sguardo che scivola sulla realtà, osservando con freddezza e distacco, al contempo ammaliato dalla bellezza dell’immagine.
Barry Lyndon: la trama
Pur essendo tratto dal romanzo di Thackeray, Barry Lyndon non ricalca in maniera speculare la trama del libro: nonostante sia un film ampiamente sviluppato e colmo di particolari, ci sono dei tagli rispetto al testo letterario, consuetudine che crebbe sempre di più nella filmografia di Kubrick, come da lui stesso affermato.
Come su un palco teatrale gli attori e le comparse sono tanti, ma la vicenda è tutto sommato semplice.
Lo spettatore segue, a volte quasi pedinandolo, altre con la stessa distanza tra un quadro e l’osservatore, Redmond Barry (Ryan O’Neal), giovane irlandese, figlio unico di una vedova.
Molti altri personaggi non vengono analizzati chiaramente dal punto di vista psicologico, ma traspare in maniera palese il loro pensiero; sul reverendo Runt ad esempio non abbiamo informazioni specifiche ma sappiamo che disprezza il protagonista e nutre un amore segreto per Lady Lyndon.
Il film si divide in due parti, ben definite da titoli: Parte I- Con quali mezzi Redmond Barry acquisì lo stile e il titolo di Barry Lyndon e Parte II- Resoconto delle sventure e dei disastri che accaddero a Barry Lyndon. Già dai titoli si evince che trattasi di una parabola ascendente e discendente.
Parte I
Lo squattrinato ma intelligente Redmond Barry, per via della cugina e dei fratelli di lei soprattutto, interessati a farla sposare con un generale dell’esercito inglese, che il protagonista crederà di aver ucciso, si ritrova costretto a fuggire e, per vivere, ad arruolarsi nell’esercito inglese. Poco incline alla fatica e al dolore della guerra, dopo la morte del capitano Grogan, suo protettore, Redmond trova l’appiglio giusto per fuggire dall’esercito senza disertare: farà finta di essere qualcun altro e viaggerà verso la città tedesca di Brema per parlare con un alto comando.
Verrà però smascherato dal capitano prussiano Potzdorf che, ponendolo dinnanzi alla scelta di essere riconsegnato agli inglesi o entrare nell’esercito prussiano, lo obbliga di fatto ad arruolarsi nuovamente, stavolta in condizioni ancora più sfavorevoli.
Durante una battaglia però Redmond Barry salva la vita a Potzdorf e viene ricompensato con denaro e un cambio di incarico: sarà infatti una spia presso la casa dello Chavalier de Balibari, in realtà un irlandese sotto copertura. Barry confida allo Chevalier di riferire tutto ciò che vede a Potzdorf e, per la sincerità e la stessa condizione di irlandesi “esiliati”, i due diventano amici. Lo Chevalier, giocatore d’azzardo, bara e Barry lo aiuta: un principe sospetta l’inganno e lo sfida a duello. Subito Barry avverte i prussiani, che decidono di espellere dal loro territorio lo Chevalier. All’arresto però non porteranno via il vecchio nobile ma Barry, sotto mentite spoglie; lo Chevalier era già fuggito durante le ore notturne.
I due continuano a giocare e vincere nelle varie corti d’Inghilterra: Barry conosce proprio in questo contesto Lady Lyndon (Marisa Berenson), un’affascinante donna sposata col vecchio e malato sir Charles Reginald Lyndon.
Tra i due, in una delle scene più celebri- e forse l’unica romantica- della pellicola, scatta una forte attrazione.
Parte II
Alla morte di sir Lyndon, i due si sposano e dopo poco hanno un figlio, Bryan, adorato da entrambi.
L’idillio tra i due dura ben poco: Barry ama la vita di corte, il lusso, il gioco d’azzardo, essere circondato da donne fino all’alba, il prestigio e l’agiatezza economica, di certo non ama la moglie, che in un crescendo infinito si trasformerà in un cadavere ambulante caratterizzato solo da una profonda ed incurabile depressione.
A dar adito all’infelicità di Lady Lyndon, oltre ai continui tradimenti, vi è l’odio del figlio maggiore: Lord Bullington (Leon Vitali), figlio del defunto sir, detesta l’irlandese, lo reputa rozzo e crede che abbia solo approfittato della condizione economica della madre.
All’inizio Barry cerca di trovare un compromesso, ma crescendo Lord Bullington cova un astio sempre maggiore, che sfocia anche in una rabbia repressa verso il fratellino Bryan.
Nel frattempo la madre di Barry, trasferitasi nello stesso palazzo, lo esorta a guadagnarsi un titolo nobiliare, così da ottenere ciò che altrimenti sarebbe solo nelle mani di Lord Bullington.
Barry tenta in tutti i modi di avere un titolo, riesce a ricevere perfino re Giorgio III, con cui però non c’è un vero e proprio colloquio, ma solo un invito ad investire di più nella campagna militare in America e partecipare in prima persona ai combattimenti.
Un giorno tra Lord Bullington ed il piccolo Bryan inizia una violenta lite, che termina con Barry che punisce, frustandolo, il figliastro.
Lord Bullington promette vendetta: questo avviene dopo poco, infatti durante un’esibizione musicale della madre, irrompe, accompagnato da Bryan con ai piedi rumorosi zoccoli lignei, ed annuncia di voler lasciare la sua casa se in questa continuerà a viverci il patrigno.
Il crescendo della tragicità
Barry, estremamente istintivo, picchia davanti a tutti Lord Bullington: nella società dell’apparenza cade la maschera indossata fino a quel momento, Barry si palesa nella sua animalesca brutalità sconvolgendo tutti i nobili presenti.
La possibilità di un titolo svanisce simultaneamente allo smascheramento: dopo poco l’aristocrazia si allontana dalla famiglia Lyndon, e su Lady Lyndon, sempre più provata, gravano le continue richieste dei creditori, il danno per lei adesso non è solo morale ma anche economico.
Nonostante i crescenti debiti la famiglia Lyndon non priva Bryan di un dono di compleanno assai gradito, un cavallo, non ancora domato e per questo pericoloso.
Il bambino però, mosso da un’estrema curiosità, si reca nella stalla all’alba, dove tenta di cavalcare ma, poiché l’animale si imbizzarrisce, cade a terra ferendosi mortalmente. Con la scomparsa del figlio i due genitori sono sconvolti, Barry si rifugia nell’alcol, Lady Lyndon tenta addirittura il suicidio, che però non va a buon fine.
Vista la tragica situazione fa rientro in casa anche Lord Bullington, il rapporto col patrigno però non migliora ed il giovane vorrebbe delle scuse. I due si sfidano a duello: il primo sparo di Bullington, forse per emozione o per inesperienza, fallisce, ma Barry, tentando di chiudere il duello, quando è il momento di sparare, punta la pistola per terra. L’astio covato dal figliastro è talmente forte che, nonostante il tentativo di pace da parte dell’irlandese, il giovane decide di sparare, stavolta colpendo alla gamba Barry. La ferita è gravissima e gli viene amputata la gamba, Lord Bullington propone a Berry un vitalizio solo se, insieme alla madre, lascerà l’Inghilterra, altrimenti finirebbe in prigione per il duello e, a causa dei debiti, nessuno lo aiuterebbe ad uscire. Barry allora accetta e, insieme a sua madre, torna in Irlanda.
L’epilogo
Il film termina con una narrazione: sappiamo che continuò a giocare in giro per l’Europa ma senza l’antica fortuna. L’ultima immagine che vediamo è quella di una distrutta Lady Lyndon che, insieme al figlio e al fidato reverendo, firma un assegno intestato al marito: è il 1789, anno della rivoluzione francese, che segna il passaggio dall’età moderna a quella contemporanea. Sullo schermo divenuto nero appare una scritta:
“Fu durante il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e disputarono. Buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri, ora sono tutti uguali.”.
Barry Lyndon, l’arte come rivelazione
Ciò che emerge dalla visione della pellicola di Kubrick è più di tutto un aspetto puramente estetico, inteso non solo dal punto visivo ma anche uditivo.
È cinema puro per definizione: immagine che si muove, in unione con il sonoro.
Il lavoro del grande genio infatti interessò principalmente due grandi settori: la pittura e la tecnica moderna. Per quanto riguarda l’arte è evidente che Kubrick studiò le opere dei grandi paesaggisti di fine ‘700, primo tra tutti John Constable e, per questo motivo, girò le scene del suo film addirittura in tre diversi Stati d’Europa: Germania, Francia ed Inghilterra.
I quadri da cui prese ispirazione non sono però solo paesaggi, spesso infatti le scene assumono la vera e propria forma di tableaux vivants, anche se l’intento non è l’imitazione animata, né la citazione: in particolare, volendo riportare degli esempi, le opere di William Hogart, alcuni dipinti di George Stubbs- come Molly Loglegs o Eclipse– e La passeggiata del mattino di Thomas Gainsborough.
Kubrick non mette in scena il Settecento, ma la rappresentazione di come l’arte dell’epoca avrebbe voluto che il Settecento fosse: l’obiettivo è quello di creare così un distacco dalla realtà, non è la mimesis platoniana- arte ingannatrice-, ma una ricostruzione di immagini che vengono dalla storia, e per questo viste con freddezza.
Inoltre le inquadrature fisse sulle stanze, questi ampi spazi interni, con una cura maniacale sui materiali, sui tessuti, sui colori, comprende una “citazione” alla stanza barocca di 2001: Odissea nello spazio, in fondo, per le ragioni appena esposte, Barry Lyndon è un film “fantascientifico” più che storico, come ha già scritto Enrico Ghezzi.
La luce come perfezione estetica nell’opera di Kubrick
Lo studio d’avanguardia, invece, si palesa soprattutto nella luce: tutto il film è girato con luce naturale. Perfino le scene d’interni sono illuminate dalla sola luce delle candele, non un particolare ricordando che il Settecento è “il secolo dei lumi”. Per arrivare a tanto Kubrick si fece realizzare delle nuove cineprese dalla Panasonic e si procurò degli obiettivi con un’apertura di diaframma massima di 0,75, luminosissimi, prodotti da Zeiss per la NASA. Per la bellezza delle inquadrature, magistralmente costruite, per l’estremo realismo dei colori, vividi ma non troppo saturi, per la luce calda e perfetta, Barry Lyndon è senza dubbio uno dei film visivamente più belli mai realizzati nella storia della settima arte.
La colonna sonora
E in un’opera artistica a tutti gli effetti come questa anche la musica è ovviamente un elemento di primaria importanza: Kubrick aveva iniziato nel 1968 con 2001:Odissea nello spazio a utilizzare musica non originale nei suoi film, affermando che, data l’esistenza di melodie tanto stupefacenti, creandone di nuove quest’ultime sarebbero risultate solo discrete. La colonna sonora è quindi composta in maggioranza da brani del ‘700, riorchestrati da Leonard Rosenman. Il film si apre con la Sarabanda di Händel, tema ricorrente e presente anche nel finale, troviamo poi una marcia dall’Idomeneo di Mozart, un movimento di una sonata per violoncello di Vivaldi, un’aria tratta dal Barbiere di Siviglia di Paisiello, un concerto per cembali di Bach e una marcia scritta dal sovrano illuminato Federico II di Prussia.
Questi sono i brani contemporanei alle vicende narrate, sono presenti inoltre motivi ispirati a musiche popolari, dei The Chieftains, anche se a spiccare è sicuramente Schubert.
Presente con la Danza tedesca n. 1 in do maggiore e il celebre II movimento dal Trio in mi bemolle maggiore n. 2 op. 100, la musica di Franz Schubert, che ha vissuto e composto nell’Ottocento, è una proiezione nel futuro dal punto di vista musicale, e dal punto di vista narrativo, soprattutto nella sequenza dove il Trio è il terzo protagonista oltre a Barry e Lady Lyndon, rappresenta uno stacco emotivo rispetto al resto del film.
Barry Lyndon, la musica, tra realtà e finzione
Quella musica è fuori contesto dal punto di vista storico perché la sequenza è staccata rispetto a tutto il resto del film.
Kubrick infatti spoglia da ogni tipo di emozione tutte le scene, perfino la morte del figlioletto Bryan, seppur commovente, non è girata in maniera tanto intima quanto questa, proprio per via della musica.
In realtà tutto il pathos della scena è una finzione- per Barry, non per Lady Lyndon- ma, poiché l’estetica (che in questo caso si manifesta con la musica) va oltre la mera narrazione è necessario che anche la musica faccia finta che sia così, perché l’obiettivo di Barry è piacere a Lady Lyndon così da poter entrare a far parte della cerchia aristocratica.
Nella sua ascesa Barry ottiene successo perché non manifesta la sua vera essenza, che però traspare nella già citata scena in cui Lord Bullington fa scatenare l’ira di Barry: in quei frame il protagonista appare come un plebeo in mezzo ai nobili.
L’epifania della vera natura di Barry
Dopo questo smascheramento nulla sarà più come prima, e infatti le rivelazioni degli stati d’animo non saranno palesati a parole né tantomeno con la musica, che avrà sempre un certo distacco (pensiamo al duello finale con la Sarabanda suonata con i timpani), ma con alcune immagini che- come quadri- non possono più mentire.
La scena ha un impatto molto forte sullo spettatore, ed ha influenzato il regista due volte vincitore della Palma d’Oro Ruben Östlund: lo svedese ha infatti dichiarato di aver tratto ispirazione da Barry Lyndon per una scena di The Square.
Il momento in questione è quello in cui una cena di gala viene interrotta dall’irruente arrivo di un uomo che si comporta come una scimmia, in realtà performance di un artista russo, scatenando il panico nei commensali.
Si potrebbe pensare che il riferimento kubrickiano sia a 2001, invece il regista ha dichiarato che è proprio la scena in cui il piccolo Bryan, accompagnato dal fratellastro maggiore, interrompe bruscamente e rumorosamente l’elegante momento musicale in cui era coinvolta la madre.
Barry Lyndon: l’ineluttabilità della fine
La frase finale di Barry Lyndon è una saggia e reale affermazione, che vanifica tutti gli sforzi del protagonista, in realtà già resi inutili dal suo stesso fato.
La tanto agognata élite societaria non cambierà il reale destino dell’uomo: la morte, che elimina ogni differenza.
Che sia questo il vero messaggio (se un messaggio c’è) del film non è del tutto chiaro, come è giusto che sia data la portata artistica della pellicola.
Ciò che di certo c’è è che, anche in quest’opera, così come in tutte le altre, Stanley Kubrick scava nell’animo umano, attraverso percorsi di una bellezza disarmante: le tematiche del singolo in mezzo al gruppo, delle convenzioni sociali, della finzione come mezzo di sopravvivenza, torneranno nelle successive opere di Kubrick, dando prova della maestria di un regista che ha dato vita a grandi capolavori del cinema e dell’arte.