Arriva sul finale come una doccia di aghi April, il lungometraggio della regista georgiana Dea Kulumbegashvili, prodotto da Luca Guadagnino, in concorso per il leone d’oro alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, risultato vincitore del Premio Speciale della Giuria.
Film forte, disturbante, che ha estenuato molti spettatori, criticato per l’eccessiva crudezza con cui mostra, osserva, indugia su dettagli quasi sempre nascosti da pudore e sensazione, per osservare e fare osservare l’interruzione di maternità clandestina e non solo.
Narrazione tra documentario e buco della serratura
April non possiede indulgenza alcuna, ma anzi avanza su un voyeurismo scippato, in bilico tra atto documentario e buco della serratura, che, a giudizio di chi scrive, rafforza l’atmosfera di straordinarietà di ciò cui si assiste.
Il ritratto iperrealista di una donna e di un ambiente radicale, fuori dal consentito, oltre la cortina del visto e del possibile, per riflettere su un mistero come la nascita, oggetto di veti e conflitti sensati ed insensati e sul corpo di donna, carne viva, crocifissa, in attesa e desiderante.
April – Trama
Nina è una ginecologa che al lavoro in ospedale affianca la pratica di aborti clandestini tra i villaggi della regione rurale in cui abita.
Durante un travaglio in sala operatoria, un bimbo prematuro muore di ipossia poco dopo la nascita; probabilmente andava fatto un cesareo che non è stato posto in essere.
È il mese di Aprile e da qui inizia un’indagine a carico di Nina che rischia di far venire a galla i suoi interventi salvifici ma vietati e di comprometterle irreparabilmente la vita.
April – Recensione
April è un dramma paratattico, articolato in quadri giustapposti, che immette tasselli di natura, viscere umane e tempesta sotto lo sguardo ignaro dello spettatore senza preamboli, riducendo la parola ad un’ossatura tagliente ed evocativa.
L’obiettivo è ritrarre una donna insolita, ingestibile, inqualificabile, padrona di sé, ma contenitrice di fantasie spicciole o brutali per sé, angelo di solidarietà per le madri in difficoltà, ed entità femminile non addomesticata al ruolo di madre, moglie, amante, personaggio sensuale ed androgino al contempo.
Donna ingestibile e non qualificabile, selvatica, controversa, magnetica
Da una parte April rivela il mondo degli aborti clandestini, riparo di donne, giovani e meno giovani, in totale balia della sorte imposta al proprio corpo da altri. Donne abusate, donne troppo giovani per concepire e già mogli, donne cui è vietato prendere la pillola, donne con gravidanze mai registrate, con esistenze mai denunciate.
Nina è lì per loro, per dare consapevolezza a chi non la ha, per assicurarsi che tutte possano avere una chance, un’alternativa, un’altra vita.
Dall’altra Nina è creatura selvatica, cerca l’amore casuale, spicciolo, da poco, non ha figli, ma li fa nascere e li fa morire; non è legata a uomini, ma li prende quando vuole, quando riesce. Che moralità ha? Sicuro complessa, sicuro non binaria, non bianca, né nera.
Di questa anima conflittuale lodevole e sporca vuole parlare la Kulumbegashvili, con uno stile crudo, fatto di pelli e parti intime spesso esibite, rovinate, cicatrizzate, corpi in affanno, corpi segreti, corpi che attraversano lo sguardo in camera per un caso studiato o per un urgenza non rappresentativa.
La maternità è strappo innaturale, barbarie, attesa e non finzione
Una finzione quasi non finzione, per ricordare che la maternità è uno strappo enorme, il portento anomalo della natura, qualcosa di indigeribile e provocatorio, che ammala chi lo studia e lo pratica, di un’empatia dai codici discutibili, incivili, ancestrali, non univoci.
Lo stile di April ci ricorda in ogni lungo fotogramma l’attesa e la sutura della maternitá. Fatto doloroso, fatto feroce, ingrato e violento. La sequenza iniziale del parto, al termine del quale nasce un bimbo bianco e morto, non risparmia alcun dettaglio di lacerazione, nonostante l’inquadratura dall’alto.
Così come il raschiamento della giovane sordomuta, lunga sequenza sghemba, come se si spiasse questa pratica, di fatto, appunto, proibita, insiste sul dettaglio di un addome convulso, un braccio che tiene stretto un altro braccio, rumore di ferri del mestiere a distanza ravvicinata e mugolii strazianti della giovane madre-non-madre.
Attorno a questo dipinto che omaggia la vita tirandole il collo, stroncandola sul nascere per proteggere altra vita (quella della madre che la accoglie), c’è una natura inquieta, paesaggi indaco che piombano sugli esseri umani, con nuvole rumorose, temporali che si preannunciano e che non arrivano mai, un urlo di tregua quando non si riesce a vedere la soluzione della matassa.
La natura tutta indaco segue in esterni la burrasca interiore di Nina
La tempesta imminente più volte ripresa, romba e fa da eco allo stato d’animo della protagonista, braccata, insicura, travolta dalle responsabilità e dai sensi di colpa, lei, che pur nella sua condanna non smette di compiere ciò per cui è condannata.
Si aggira tra i tableau vivant di April una carcassa di ferite e deformità che cammina in affanno tra le stanze, sopra le acque, si sdraia sulla terra arida, come il cumulo di colpe e strascichi psicofisici che la maternità affrontata, negata, imposta, strappata dai ventri spesso porta con sé e di cui troppo poco si parla.
April – Cast
L’interprete protagonista Ia Sukhitashvili è un ombra plastica, fascio di muscoli, nervi, desideri spinti, mai proni, una silhouette fremente e vitale, spesso in chiaroscuro, piena di grande eleganza sofferta, qualità che contribuisce a rendere ogni sua apparizione, movenza, parola, catalizzatrice di sguardo.
Non so se vedremo mai April nelle sale italiane, ma oltre lo sforzo autoriale, oltremodo tangibile qui, c’è una chiara volontà di non dare nulla per scontato in ciò che tutti chiamano naturale, che sia il formarsi di una turbinosa, possente, tragica, burrasca, o il dare alla luce, a questa tremenda luce di oggi, un altro essere umano.