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Apollo 10 e mezzo – la recensione del film d’animazione di Richard Linklater

Nel 2014, forte del successo ottenuto grazie alla fortunata Before trilogy, Richard Linklater scuote ancora una volta il pubblico e la critica con un’opera maestra titanica e impareggiabile, Boyhood. Le lodi si uniscono al plauso degli spettatori, consolidando definitivamente lo statuto del regista. Segue, però, negli anni successivi, un trittico di pellicole – Everybody wants some, Last flag flying e Che fine ha fatto Bernadette – che pur non trattandosi di veri e propri passi falsi destano solo tiepide acclamazioni. Oggi Linklater prova a tornare al successo con Apollo 10 e mezzo, il suo film più recente, della durata di 98 minuti. Nel tentativo di confermare la propria nomea, il regista ricorre ad una tecnica da lui già sperimentata in passato, quella del rotoscopio, realizzando una tipologia del tutto peculiare di animazione. Il film è attualmente disponibile nel catalogo della piattaforma di streaming Netflix, che ha curato la distribuzione nel nostro paese.

La trama del film

In Apollo 10 e mezzo i ricordi di infanzia del giovane Stanley si uniscono alla narrazione degli eventi che hanno portato, nell’estate del 1969, allo sbarco sulla Luna. La voce narrante di uno Stanley più adulto (affidata a Jack Black) ripercorre suggestioni e memorie del proprio passato – vertiginosamente simile, a suo dire, a quello del regista stesso – tracciando un ritratto nostalgico di rapporti familiari, dinamiche sociali, usi e costumi di quegli anni. Nulla sfugge al resoconto del protagonista, che si sofferma su ogni aspetto della propria realtà: fra i tanti, la scuola, il vicinato, le figure genitoriali, la musica, i cibi, la televisione, le tecnologie, i volti più pop e le abitudini. E, contemporaneamente, fondendo immaginazioni infantili e informazioni più fedeli alla reale cronaca, ritrae le tappe della sudata e suggestiva corsa allo spazio, fatta di competitività, attese e entusiasmi collettivi.

Apollo 10 e mezzo

Apollo 10 e mezzo: l’Amarcord tutto statunitense di Richard Linklater

Prima ancora di essere un film d’animazione, o una pellicola tematicamente rivolta allo sbarco sulla Luna, Apollo 10 e mezzo è una summa di suggestioni e memorie derivanti dall’infanzia del regista stesso. In una fase cinematografica – quella odierna – in cui, sulla scia del primo e impareggiabile exemplum felliniano, si tende a fare un gran parlare dei vari “amarcord” degli autori contemporanei (ultimo ma certo non per importanza il sorrentiniano È stata la mano di Dio, intriso di intimità e ricordi), l’opera in questione è, a tutti gli effetti, il giocoso Amarcord di Richard Linklater. L’operazione, in questo caso, appare lievemente differente rispetto a quella effettuata dalle fonti autoriali più europee, poiché nonostante l’evidente nostalgica intimità permea il lungometraggio una totalizzante e imprescindibile venatura statunitense.

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Attraverso la nozione del ricordo, in Apollo 10 e mezzo Linklater gioca con i più svariati elementi che compongono la cultura del proprio paese. In primis gli usi e i costumi, certamente, ma anche le dinamiche sociali, la politica e gli errori commessi – più o meno in buona fede a seconda dei casi – dalla propria nazione. Il ricordo, però, non si rivolge solo alla componente Stato (intesa nelle sue sfaccettature di politica, società e tradizioni), ma prima ancora si rivela incentrato sul nucleo familiare. Emerge, in effetti, una marcatissima componente affettiva in quella che è la trattazione, seppur per immagini, delle dinamiche familiari e delle abitudini, trasposte (nell’esperienza vicaria di Stan che si fa portavoce di quella dello stesso regista) sul grande schermo con una nostalgica patina di sincero affetto.

Ciononostante, l’enfasi e l’attenzione narrativa in ultima istanza sembrano essere definitivamente rivolte verso una fra le pagine più gloriose del passato relativamente recente degli Stati Uniti, quella relativa all’allunaggio del 1969. Un passato che attualmente sembra voler fare il suo ritorno sul grande schermo con particolare insistenza, forse in ragione del suo essere un evidente catalizzatore di forte orgoglio patriottico in quella che è una delle nazioni al mondo che più si dimostra incline ad una marcata vena nazionalista. Lo sbarco sulla Luna in tempi non lontani è evidentemente andato per la maggiore in sala, come testimonia la pressoché totale aderenza riscontrabile tra certi segmenti narrativi dello stesso Apollo 10 e mezzo e la trama di First man – Il primo uomo (Damien Chazelle, 2018), altro grande protagonista di una recente stagione cinematografica.

Ma Apollo 10 e mezzo è solo l’ultimo exeplum di un filone che sembra ampiamente funzionare, soprattutto nelle sale cinematografiche d’oltreoceano. La produzione filmica statunitense sembra infatti ben felice di riproporre al proprio pubblico, nelle più svariate forme, un episodio considerato così glorioso della propria storia. Ed è così che, sulla scia di una pagina tanto illustre del trascorso statunitense, si profila una produzione filmica intrinsecamente targata USA, che spaziando da Gravity a Hidden figures – Il diritto di contare, passando per Ad astra, rivende al proprio pubblico monoporzioni di patriottismo su pellicola, più o meno romanticizzato a seconda delle occasioni ma indubbiamente – stando ai risultati del botteghino – sempre discretamente efficace.

Apollo 10 e mezzo

Apollo 10 e mezzo, tuttavia, è evidentemente l’unione di una serie di elementi differenti e variegati: è un film sull’allunaggio, una pellicola d’animazione, un’efficace operazione nostalgia ma, forse ancor prima, è un’opera di Richard Linklater. La dimostrazione più lampante, in questo senso, è data dall’uso della tecnica del rotoscopio – già utilizzata dallo stesso regista per la realizzazione di Waking life (2001) e A scanner darkly – Un oscuro scrutare (2006) – che si rivela capace di imprimere al prodotto nella sua interezza un timbro di apprezzabile unicità.

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Ma non è questo l’unico marchio di fabbrica della fucina di Linklater riscontrabile nella pellicola. Perché, per quanto in modo meno immediato rispetto ad altri casi del suo corpus operistico, anche in questo caso dalla pellicola emerge la rilevanza dell’elemento temporale, cardine narrativo che segna l’intera filmografia del regista. Se però in altri suoi lungometraggi la questione temporale, vista in un’ottica più assoluta e concettuale, veniva indagata e problematizzata, qui sfocia (con una modalità forse leggermente più bidimensionale) nell’ampio concetto di memoria, nel ricordo di un passato trascorso, glorioso, amato ma irripetibile.

Apollo 10 e mezzo

Complessivamente, dunque, quest’ultimo è inequivocabilmente un film di Linklater, poiché vi si riscontra più di un elemento utile a definirlo tale, rendendolo un prodotto in definitiva abbastanza coerente nell’economia del corpus filmico del regista. Tuttavia, per quanto indubbiamente lieve e gradevole, il lungometraggio non riesce neppure lontanamente ad avvicinarsi ai livelli dei grandi film che lo hanno preceduto garantendo al proprio realizzatore l’etichetta di maestro, di pilastro del cinema contemporaneo. Sarebbe altrettanto ingiusto, però, liquidare la pellicola etichettandola meramente come un semplice passo falso, poiché non lo è. Più semplicemente, per quanto non definibile un’opera maestra, Apollo 10 e mezzo è un film snello, gradevole, giocoso, sebbene più modesto (nei risultati ma anche nelle intenzioni) rispetto a quelli che lo hanno preceduto.

Eleonora Noto
Eleonora Noto
Laureata in DAMS, sono appassionata di tutte le arti ma del cinema in particolare. Mi piace giocare con le parole e studiare le sceneggiature, ogni tanto provo a scriverle. Impazzisco per le produzioni hollywoodiane di qualsiasi decennio, ma amo anche un buon thriller o il cinema d’autore.

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