A Beautiful Day – You Were Never Really Here è un thriller ma è anche un viaggio mentale, una proiezione dei turbamenti e delle percezioni del protagonista, un ampliamento della realtà oltre la mera azione, un’ alter-azione in carne, ossa e decadenza.
Anno 2017, il film è firmato dalla regista Lynne Ramsay, e premiato al Festival di Cannes per la miglior sceneggiatura ed il miglior attore protagonista.
In attesa di scoprire la nuova prova di Phoenix in Joker: Folie a Deux, sequel del Joker di Todd Philips, Leone d’oro a Venezia.76, riscopriamo uno dei ruoli da lui interpretati, che forse presagivano la voragine fratta tipica del personaggio della DC Comics.
A Beautiful Day – You Were Never Really Here – Trama
Joe (Joaquin Phoenix) è un veterano che fa il killer su commissione: recupera ragazzine fatte sparire e finite nei giri di prostituzioni minorili e non, sequestrate e schiavizzate dentro club di ricche perversioni. A casa ha una madre anziana da accudire (Judith Roberts) e pesanti demoni personali eredità di un’infanzia di abusi e maltrattamenti paterni. È preciso, silenzioso, barbaro e violento quando deve fare piazza pulita.
Una sera il vicino lo vede rincasare da un lavoro e Joe è costretto a cambiare range di incarichi. Gli viene affidato il recupero in tutta segretezza di Nina (Ekaterina Samsonov) figlia di un importante senatore, orfana di madre, morta suicida poco tempo prima, adolescente fragile e a sua volta ferita psicofisicamente da chi doveva proteggerla.
Questo caso apre a Joe una finestra sull’inferno e una sul paradiso, scatenando assonanze con il suo dolore il quale sembra ora reclamare uno spazio di grido e giustizia.
A Beautiful Day – You Were Never Really Here – Recensione
Con A Beautiful Day – You Were Never Really Here la Ramsey plasma un thriller ellittico e di carattere, visivamente schierato, che mostra le sue prospettive in modo intuitivo, montando un puzzle di inquadrature evocative che non descrivono ma agganciano ed amplificano un’impressione.
La discesa nell’abisso del protagonista da quotidiana agonia interiore si fa viaggio esteriore e feroce nella brutalità sommersa di un mondo decadente.
Thriller ellittico, visivamente impegnato, in un mondo crepuscolare
L’universo in cui si muove Joe infatti è una dimensione morente, crepuscolare, dove ogni cosa è rotta, inquinata, inerte ed abituata al male, alla perdita, alla voce grossa, alla malattia, all’indifferenza. Sembra non esserci più rimedio alla perdizione delle persone, dei legami, dei costumi: sono così e basta.
A rimetterci sono i più deboli, gli indifesi, gli innocenti, i primi tra i sacrificabili. L’anziana madre, i giovani figli del suo intermediario, le donne tutte, soggetti-oggetti mal pensati, mal usati, su cui si riversano inquietudini personali, quasi esclusivamente maschili, che non trovano né sbocchi né giustificazioni altrove.
E più si sale la scala sociale più aumenta il grado di sofferenza sfogata crudelmente, la dannazione che abbraccia il potere, l’ombra lunga del non ritorno, in cui cadono tutti prima o poi, per scelta altrui o per mano propria. Solo due cose accarezzano l’anima: il potere ed il diavolo, probabile prendano spesso la medesima forma.
Joe abita i suoi fantasmi, tra ricordi di violenze subite da lui e dalla madre, fantasie di morte, atti autolesionistici e pillole per scacciare la paura, finché Nina, angelo in corpo di bambina, che ha sofferto quel che ha sofferto lui, non gli parla per sguardi, di una possibile somiglianza tra i loro due dolori, di una solitudine che da infinita e disperata diventa ostacolo sormontabile. Voragine comune, per una comune cicatrice.
Così nasce una seconda possibilità: l’occasione di rimettere a posto una vita, salvata la quale si salva anche se stessi.
Basato sul libro di Jonatan Ames Non sei mai stato qui, il film contiene la sua ricchezza nel mai detto, mai spiegato, nel solo accostato, con un’essenzialità verbale e di azione che relega la parola a pochi incontri-chiave così come la violenza ad evento del dietro le quinte, mai esibita nell’atto di forza o nel voyeurismo.
Violenza non esposta ed essenzialità verbale
Come se quel male consumato tra case chiuse, appartamenti segreti, pub a luci rosse, ritrovi illegali di carni da macello non fosse mai esistito, interamente racchiuso in un’odissea mentale di chi vorrebbe fare tornare la giustizia nel mondo, in una sorta di apocalisse onirica.
Il killer colpisce, ma è fuori di sè: ha la pietà di un cadavere che parla a cadaveri, perchè praticare la morte comporta una intraducibile rivoluzione emotiva.
Più esposte e classiche sono le visioni cattive del passato di Joe, il panico e l’impotenza, la manipolazione e le umiliazioni, che costellano un bambino senza infanzia e lo condannano ad un futuro opaco per sempre. Nina, forse, cancella quel per sempre. La sua libertà coincide con un ritorno del sole nella città, un sole che sembrava non essere mai esistito, sfiduciato dagli stessi abitanti, caduto nell’oblio.
La quiete dopo la tempesta, raccontata con l’ovatta sulle dita, intelligenza sensitiva e proiezione emotiva non scontata, tra un finto rilascio di tensione ed un’adrenalina silenziosa.
Colonna sonora drammaturgicamente importante di Jonny Greenwood: A Beautiful Day – You Were Never Really Here vede nella musica una seconda sceneggiatura che guida spesso la percezione emotiva dello spettatore nelle riprese di scene e di dettagli, sia in modo conforme a ciò che appare, sia in modo totalmente difforme, nutrendo ulteriormente la sensazione di avventura intima, almeno psicofisica.
A Beautiful Day – You Were Never Really Here – Cast
Phoenix per sua stessa natura si presta ottimamente a questo soggetto: gli ci vuole poco per cadere in delle profondità che navigano a pelo d’acqua tra espressioni, scatti e pochissime parole, oscilla precario tra l’abbandono e la salvezza.
Il bilico è la cifra di questo interprete, bilico di qualità, costantemente esposto, terribile e ferito, spostato più verso il non ritorno ma con gli occhi e forse una mano lanciati alla luce.
Sorprendente nel suo genere, diretto con carattere non comune, A Beautiful Day – You Were Never Really Here parla di e alle paure comuni, inquietudini irrisolte che producono mostri: mostri in grado di distruggere prima gli altri, ma poi, inesorabilmente, se stessi.