Siamo nel 1997, David McKenna, giovane sceneggiatore, scrive uno script ispirato ai suoi ricordi d’infanzia a San Diego, dove spessissimo si è ritrovato davanti a scontri tra gang dovuti al colore della pelle. Da una parte i gruppi afroamericani del sottobosco criminale, dall’altro gli squadroni skinhead con idee legate al culto ariano di Hitler. Ecco che nel 1998 esce quindi American History X, film d’esordio di Tony Kaye (che curerà anche la fotografia) prima del suo progressivo allontanamento da Hollywood. Ma andiamo con ordine.
Il film è di nuovo disponibile su Netflix dal 1 agosto.
La trama
Derek Vinyard (Edward Norton) è uno dei capi più rispettati di una frangia con idee nazifasciste e da suprematista bianco, e vive in una piccola villetta borghese a Venice Beach. Il fratello minore Danny (Edward Furlong) una sera si accorge di un tentativo di furto da parte di una banda afroamericana nell’abitazione della sua famiglia e avverte Derek, che, senza farselo dire due volte, esce e uccide due dei tre scassinatori, ricevendo così una condanna a tre anni di carcere.
Proprio durante l’assenza di Derek, un po’ per imitazione, un po’ per rivalsa nei confronti dei ladri, Danny passa sempre più tempo con gli skinhead di Cameron Alexander (Stacy Keach), strettamente legati al fratello. Addirittura arriva a portare un tema a scuola ispirato al Mein Kempf, il testo politico di Adolf Hitler.
Fortunatamente il preside della scuola Bob Sweeney (Avery Brooks), memore di quello che accadde col fratello molti anni prima, decide di prendere Danny sotto la sua ala, imponendogli di scrivere un saggio sul suo rapporto col fratello, proprio nel giorno in cui quest’ultimo sta uscendo di prigione. Il saggio si intitolerà American History X.
Kaye avrebbe poi approfondito anche le sue idee sul sistema scolastico americano circa 9 anni dopo con Detachment.
American History X, un film dalla molteplice paternità
Nonostante Norton non fosse la primissima scelta di Kaye per interpretare Derek Vinyard, anche l’attore di Boston aveva molte riserve sull’esito finale del film. In particolare, il montaggio finale di Kaye non piacque né alla New Line Cinema (la casa di produzione del film) né allo stesso Norton a cui venne affidato il compito di rimontare interamente l’opera. Ecco che la versione che conosciamo non corrisponde a quella immaginata da Kaye, bensì è il prodotto dell’unione tra la visione di Norton e quella dei produttori della New Line.
Partendo da questo presupposto, non si può che lodare comunque il lavoro fatto da Kaye con regia e fotografia. Il film si apre con una sequenza flashback magistrale, con un bianco e nero e un comparto musicale “angelico” capaci di toccare fin da subito determinate corde emotive dello spettatore. La macchina da presa ci accompagna poi, tramite un passaggio su un mare calmo, verso il presente di Danny, appena convocato dal preside per il suo saggio sul Mein Kempf.
La sequenza temporale del presente (che si concentra su Danny e che si svolge nell’arco di una lunga giornata) sottostà a dei canoni visivi ed estetici più classici, come se il film fosse dotato di due anime ben distinte. Nel passato Kaye osa, mostrandoci soggettive, primissimi piani, movimenti repentini della macchina da presa: la regia non ha paura di osare, attingendo a piene mani sia dal cinema europeo.
Nel presente invece si torna a un’impostazione più classica, propria di buona parte dei film americani coevi ad American History X.
In definitiva, è come se per il presente la macchina da presa seguisse un suo percorso prestabilito, mentre nei momenti dedicati al passato avesse licenza di muoversi come meglio crede, più sinuosa e instabile, ancorata ai ricordi di Danny e Derek.
L’odio non è innato
Il film racconta sì il razzismo e l’estrema destra, ma analizza anche la frustrazione e il senso di abbandono da parte delle autorità che soffre un certo strato sociale, quello delle periferie, lasciate da anni a loro stesse.
Attraverso scene molto crude ed esplicite come quella del pestaggio sul marciapiede o quella dello stupro in prigione, American History X riesce a raccontare la violenza in maniera lucida, ma mai fuori luogo, ancorata a quel senso di abbandono di cui parlavamo prima, che la classe alto-borghese (incarnata nel personaggio di Alexander) ha sfruttato per anni per i suoi scopi.
American History X è quindi uno di quei film che racconta più generazioni: quella più anziana, appena nominata, che tira le fila delle giovani leve; quella di mezzo, rappresentata da Derek, brillante giovane allo sbando, che trova la sua identità e il suo completamento grazie a idee antisemite e razziste, un po’ come accadde nella Germania degli anni ’30; infine quella più giovane, quella di Danny, senza dei veri modelli da seguire, e per questo pericolosamente in bilico tra una vita tranquilla e una a immagine e somiglianza del fratello, unico appiglio per il ragazzo in cui identificarsi.
In un certo senso, il quadro che viene rappresentato è un ottimo affresco anche per la società USA odierna, ancora attualissimo nonostante siano passati 25 dall’uscita del film.
American History X, “datemi Edward Norton e conquisterò il mondo”
Le interpretazioni di American History X sono tutte di alto livello, compresa quella di Edward Furlong, che dopo Terminator e questo film ha avuto una vita tutt’altro che semplice.
Ma a rubare l’occhio dello spettatore sono ovviamente Edward Norton e il suo Derek Vinyard, capace di sprigionare carisma da tutti i pori e fortemente in palla come testimoniato anche dalla sua preparazione al film.
Edward Norton non avrebbe certo bisogno di presentazioni, e le sue interpretazioni in Fight Club e Birdman parlano da sole, ma per il lavoro fatto in American History X merita un discorso a parte. Norton riesce a mostrarsi come uno spietato suprematista bianco nella prima parte del film, e come un uomo pentito in cerca di una vita migliore nella seconda, non senza giustificare il cambiamento con un lungo flashback ambientato durante gli anni in carcere.
Il cambiamento di Derek avviene infatti grazie al contatto forzato con un altro detenuto di colore che mostrerà al protagonista come gli esseri umani siano tutti uguali, nel bene e nel male, indipendentemente dalla loro origine o colore della pelle.
La virilità viene mostrata come caratteristica dominante dell’uomo bianco, veicolo grazie al quale farsi rispettare (come nella partita di basket), ma quando tale virilità viene violata e messa in discussione, crollano anche tutte le convinzioni costruite in anni di indottrinamento da parte dell’estrema destra. Un mondo quindi in cui il cambiamento è possibile soltanto se si ha la ferrea volontà di riuscirci, ma anche in quel caso, c’è un caro prezzo da pagare…
Conclusioni
Quando le cose sembrano aggiustarsi, il finale del film spazza via qualsiasi speranza di lieto fine, mostrando senza filtri come il mondo sia un posto estremamente crudele, come, nonostante i molteplici tentativi di redenzione, si finisca per pagare sempre gli errori commessi nel passato, come l’odio non sia una caratteristica del singolo, ma un problema sociale (e qui possiamo chiamare in causa anche L’odio di Kassovitz ), tanto da creare un circolo vizioso tanto radicato quanto difficile da estirpare.
E forse, se c’è un modo per farlo, quello è proprio il cinema.