Una doverosa premessa
Descrivere Beau ha paura in poche parole è quanto di più sbagliato si possa fare nel giudicare un film. Sarebbe riduttivo, svilente e complesso, un attentato al significato più profondo del cinema. Beau ha paura, con i suoi limiti e difetti, è un’esperienza da fare in sala, persi nel buio insieme a tutte le altre menti confuse che alla fine della proiezione si guarderanno negli occhi e condivideranno tutte la stessa identica domanda: cosa ho appena visto?
Fatta questa premessa, ed esortando chi sta leggendo a intraprendere questa avventura in sala (perché mantenere l’attenzione per tutte le tre ore di film è una vera e propria impresa), ecco la recensione del film di Ari Aster.
Beau ha paura, informazioni principali
Beau ha paura è l’ultima fatica del regista statunitense Ari Aster, apprezzato per il suo esordio con Hereditary (2018), e consacratosi al grande pubblico un anno più tardi con lo splendido Midsommar (2019). Il film è prodotto dalla A24, casa di produzione indipendente e realtà ormai consolidata nel panorama “off-Hollywood” per quanto a vedere i loro ultimi lavori (e i loro budget) risulta sempre più difficile considerarla come tale. Tra le ultime opere prodotte dalla A24 citiamo The Whale e Everything Everywhere All at Once che si sono distinte agli Oscar 2023, e Beef serie di altissima qualità e consigliatissima a tutti.
La trama
Beau ha paura si ispira al breve cortometraggio del 2011 Beau, scritto e diretto dallo stesso Aster che assume lo stesso pretesto narrativo: un uomo di nome Beau (Joaquin Phoenix) deve prendere un volo per andare a trovare sua madre, ma gli vengono rubate valigia e chiavi di casa. Da questo momento in poi, il protagonista entrerà in un vero e proprio incubo che sembra senza fine, con ostacoli di ogni tipo che si contrappongono al suo ritorno dalla madre.
Andare oltre nel raccontare la parte centrale di Beau ha paura sarebbe onestamente ingiusto e, forse, anche impossibile. Vi basti sapere che Beau nel suo viaggio dovrà affrontare, in ordine sparso: un tizio completamente tatuato che lo insegue senza motivo, un pazzo con un mitra che crede di essere ancora nell’esercito, un’inquietante famiglia con una figlia psicopatica, un altro pazzo, stavolta con un coltello (e qui Aster cita il suo stesso cortometraggio). Insomma, stiamo parlando di una vera e propria odissea, che condivide con l’opera omerica un viaggio per tornare “a casa” dalla propria amata, ma che trova le sue affinità maggiori in un altro Ulisse, quello di James Joyce, avvicinandosi per tipo di racconto più a un flusso di coscienza che a una vera e propria opera narrativa.
L’incubo senza fine di Beau
Cercando di farsi strada nei meandri del film (e della mente di Aster) si può interpretare l’intero Beau ha paura come una sorta di “processo” (inteso quasi in senso giudiziale) che il subconscio del protagonista fa a sé stesso. Beau è in realtà una sorta di bambinone troppo cresciuto, a cui sono mancati importanti step nella formazione del proprio Io e che non è mai riuscito a ottenere la giusta indipendenza dalla figura genitoriale.
In particolare Aster si concentra sulla sponda materna, quella della madre Mona (Patti LuPone), invasiva e onnipresente (come mostrato nei vari flashback), a differenza di una figura paterna che non esiste, tanto che ci viene mostrata già nei primi minuti come una foto dal volto sfocato. E questo è forse il primo indizio che ci riconduce al tema dell’incubo: Beau non ha mai conosciuto suo padre, e tiene per l’appunto una foto in cui non ne riconosce i connotati. Ecco che l’appartamento di Beau, il suo vicinato, gli strani individui che gravitano attorno al palazzo, appaiono adesso come elementi che ci mostrano l’assoluta confusione mentale del protagonista.
Dal momento in cui Beau lascia l’appartamento in poi, Aster ci racconta il dramma dell’uomo attraverso macro-blocchi che mostrano i vari lati dell’incubo: la paura di andare dalla madre; il “rapimento” da parte di una nuova famiglia; l’opera teatrale messa in scena da una comunità di emarginati che sostanzialmente racconta della vita di Beau e in cui è la figura paterna a farla da padrone; l’inevitabile confronto finale con la madre Mona.
Blocchi o “atti” che costruiscono l’intero arco narrativo del film, per quanto la narrazione pura lascia spazio alla messa in scena, sempre grandiosa e d’impatto, che serve ad Aster per rappresentare la paura di Beau verso la madre.
Già, la paura.
Beau ha (veramente) paura
Il titolo del film, mai come in questo caso, ci viene in aiuto in maniera totalmente esplicativa. Beau ha effettivamente paura, anzi, è proprio la paura stessa a esserci mostrata come protagonista assoluta. La paura dell’ignoto, la paura del distacco dalla madre, la paura di un successivo ritorno alla dipendenza materna, la paura e i sensi di colpa generati dalle conseguenze delle sue azioni. Aster riprende un tema che gli è caro ormai da anni, che già in Hereditary aveva mostrato e che ancor prima, in Münchausen, un suo cortometraggio del 2013, aveva approfondito assumendo però il punto di vista di una madre estremamente gelosa del proprio figlio.
Beau prova per tutto il film a tornare dalla madre, ma in realtà, nei momenti in cui può effettivamente farlo si rifiuta, oppure viene travolto da eventi che lo costringono a rimandare il suo ritorno nel grembo materno. Questo perché in realtà Beau non ha mai voluto tornare, Beau ha paura di quello che la madre gli ha sempre tenuto nascosto (il suo doppio, segregato nella soffitta di Mona, accanto a un orrendo mostro fallico che rappresenta il padre dell’uomo), Beau ha paura di affrontare le conseguenze del suo odio sopito verso la madre.
Il difficile distacco dalla figura materna
L’indipendenza dalla madre non sembra arrivare mai, ed è significativo come Beau abbia paura del sesso in quanto ha sempre creduto che avrebbe potuto ucciderlo a causa di un soffio al cuore. Questo è dimostrato anche dalla dimensione sproporzionata dei suoi testicoli: sono più grandi del suo pene, mostrando una sorta di virilità inversa, e allo stesso tempo rappresentano l’inibizione che la madre gli ha imposto per tutta la vita con la bugia sui suoi problemi cardiaci.
E poi, quando meno te lo aspetti, ecco il distacco: verso la fine del film, quando Beau finalmente arriva alla casa materna e vede il cadavere della madre nella bara, incontra Elaine (Parker Posey) la ragazzina che di cui si era innamorato da piccolo. Contravvenendo alla sua paura di morire, Beau si concede alla donna, in una scena di sesso che culmina con un orgasmo dell’uomo che simboleggia la tanto agognata indipendenza dalla madre. Ma non può finire qui: Elaine rimane infatti orribilmente pietrificata sopra Beau, e qualche istante dopo torna in scena proprio la madre Mona, creduta morta fino ad allora.
L’ingombrante figura della donna è quindi ancora presente, ma adesso Beau sta finalmente crescendo e ha il coraggio di ribellarsi a lei e al suo giogo. E lo fa con un atto tragico: la afferra per il collo e stringe forte, fino a toglierle il respiro, come se tentasse in qualche modo di chiudere il cordone ombelicale che ancora li tiene collegati. Questa scena è quasi una chiusura del cerchio rispetto a quella iniziale della nascita di Beau: parto e funerale, amore e odio, vita e morte.
Ma ancora non è finita.
Il processo
Dopo il matricidio, Beau raggiunge una barca con cui cerca di fuggire lontano, in mezzo a un mare surreale. Ma viene risucchiato in una caverna da una forza suprema, quella dei sensi di colpa: sbattuto al centro di un’arena a bordo della sua barca col motore in avaria e osservato da centinaia di persone che lo stanno giudicando. Già, perché si tratta di un processo, un processo a Beau, a quello che ha fatto alla madre e al suo desiderio inconscio di non tornare da lei.
Qui assistiamo a un ribaltamento del punto di vista, in cui la madre, apparsa per buona parte del film come la causa di oppressione (e repressione) di Beau, adesso è la vittima. Il protagonista si è sempre mostrato attaccato a lei fin da piccolo, ma in realtà ha sempre cercato la sua indipendenza, anche prima di quando sarebbe stato naturalmente sensato un distacco. E qui capiamo che probabilmente tutto il film è un enorme incubo che riflette i sensi di colpa di Beau, che infatti nel finale finiscono per (letteralmente) schiacciarlo e sommergerlo proprio quando infine riesce ad accettarli. Adesso la sua espressione è serena, proprio prima di morire. Ecco, in questi pochi secondi finalmente Beau non ha più paura.
Il pubblico come parte del racconto
E qui entra in gioco anche il pubblico, che già era stato tirato in causa durante la recita nel bosco: le persone che hanno assistito al processo non sono altro che un doppio degli spettatori del film. Questa ipotesi è avvalorata dal fatto che durante i titoli di coda le luci rimangono abbassate e assistiamo, quasi impossibilitati ad alzarci, al deflusso della folla dall’arena. Il terribile incubo di uomo, il suo dramma interiore che lo ha portato alla follia, la straziante presa di coscienza della sua impossibilità di andare oltre il giogo materno, per noi è stato soltanto un divertimento, un modo per passare qualche ora.
Una sferzante critica alla società odierna e, forse, anche al pubblico cinematografico in generale.
Beau ha paura, cosa ha funzionato
Beau ha paura ha al suo interno un mix di generi talmente grande da rendere impossibile una classificazione. È un film che esula dai generi, arrivando a mettere dentro il thriller, l’horror e la commedia, ma con una connotazione sempre grottesca, onirica e surreale che ricorda per certi versi Kaufman e per altri Lynch, con un finale che invece richiama anche The Truman Show di Peter Weir.
Il cast è praticamente perfetto, sia nella scelta degli attori, sia nella loro struggente interpretazione. In particolare, Patti LuPone con la sua Mona, riesce a entrare nel cuore dello spettatore, afferrandolo e facendolo sentire oppresso proprio come quello di Beau. Anche Amy Ryan e Nathan Lane, rispettivamente con Grace e Roger, regalano una grande interpretazione, con la classica famiglia americana perfetta che in realtà nasconde un’irrequietezza di fondo devastante.
Ma la menzione principale non può che essere per il protagonista del film, quel Joaquin Phoenix per cui si sono onestamente finiti gli aggettivi: le movenze, le espressioni di Beau, il suo modo di parlare biascicato e a tratti incomprensibile, Phoenix è riuscito a far percepire allo spettatore la paura del protagonista per tutto il film.
Beau ha paura, cosa non ha funzionato
Il film, purtroppo, non esula però dai difetti. L’equilibrio tra i vari generi proposti appare precario, con la parte “commedia” scialba e quella “horror” altrettanto poco orrorifica. La durata poi è veramente eccessiva, non tanto in senso assoluto, ma per quello che il film racconta che in fin dei conti si poteva riassumere con un minutaggio sicuramente inferiore.
Alcune scene sono veramente pesanti per chi guarda, arrivando addirittura a tediarlo in alcune scene decisamente troppo lunghe.
In definitiva, appare palese come Aster abbia incontrato una difficoltà di fondo nel riuscire ad amalgamare tematiche, stilemi del genere e messa in scena, dovendo esagerare con la durata per poter raccontare tutto quello che aveva in mente.
Beau ha paura, conclusioni
Beau ha paura ha tanti difetti e li mostra tutti al pubblico. Ma allo stesso tempo riesce a raccontare un incubo in un modo che forse nessuno era mai riuscito a fare. Diciamo che l’impressione è che dopo un ottimo esordio con Hereditary, e una consacrazione come regista emergente di punta di Hollywood, con Midsommar, con questo Beau ha paura, Ari Aster abbia tentato di fare il passo più lungo della gamba, con un’opera mastodontica, con un impianto tematico incredibile e una messa in scena di primissimo livello, ma allo stesso tempo incapace di arrivare al pubblico, anche il più attento e allenato, e con un amalgama che forse non è pienamente riuscita.
Non è un film facile, ed è una di quelle opere che deve decantare nei meandri della mente di chi lo guarda. Non fidatevi della vostra prima reazione e forse neanche della seconda, ma quando arriverà il momento in cui avrete compreso la follia di Aster lo capirete da soli.