In concorso a Venezia 79, Athena di Romain Gavras è da pochi giorni disponibile su Netflix. Nome immaginario della città francese dove si svolgono le vicende del film, Athena è anche la dea della guerra, un tramite onomastico con il quale il regista, figlio di Costa-Gavras, ha dichiarato la sua volontà di assurgere alla tragedia greca: “La tragedia greca ha sempre ispirato la mia vita e la mia formazione. Mi affascinano il suo significato simbolico, il concetto di unità di tempo e il modo di trascendere la realtà, e desideravo avvicinarmi il più possibile a questo metodo di narrazione, per tradurlo in immagini e creare un’esperienza cinematografica immersiva”.
Guerra, colpa, delitto, castigo e legami familiari: questi i temi tragici che Gavras affronta nel presente di Athena, città i cui giovani si stanno ribellando in seguito all’uccisione del tredicenne Idir, picchiato a morte da alcuni poliziotti.
Athena: l’estetizzazione della banlieu
Protagonisti della rivolta sono i fratelli di Idir. A guidare la sommossa urbana c’è il giovane Karim (Sami Slimane), osteggiato dal fratello maggiore Abdel (Dali Benssalah), che, militare dell’esercito, attende, fiducioso, risposte dalle indagini della polizia. Tra i due si frappone Moktar (Ouassini Embarek), spacciatore di droga, interessato solo ai suoi loschi affari, bloccati dalla lotta armata tra i giovani di Athena e le forze dell’ordine che assediano la città. Ognuno dei fratelli rappresenta una diversa risposta, generazionale e sociale, alla morte di Idir: Karim è il giovane accecato dalla rabbia; Abdel è colui che, avendo scelto la via dell’integrazione, cerca il dialogo, Moktar è il criminale, “l’eroe” solitario, sottrattosi da tempo alle leggi della famiglia e della società. Una dialettica fraterna complessa, che riflette il disagio delle banlieues, i cui problemi (segregazione/integrazione, disuguaglianze, composite identità culturali, razzismo, violenza urbana) sono stati affrontati a più riprese dal cinema francese, da Hexagone (1993) di Malik Chibane, L’odio (1995) di Mathieu Kassovitz e Ma 6-T va crack-er (1997) di Jean-François Richet, a Diamante nero di Céline Sciamma (2014), Dheepan-Una nuova vita (2015) di Jacques Audiard e I miserabili (2019) di Ladj Ly.
Gavras si inserisce in questa tradizione ormai trentennale con uno sguardo immersivo, evidente sin dall’inizio del film, aperto da un piano sequenza che in dieci minuti ci precipita nella violenza esplosiva di Athena. E per tutto il film lo stile registico è abilmente guidato dal criterio dell’esplosività e dell’azione; Athena è una messa in scena energica e spettacolare della guerra urbana, con virtuosismi e scelte tecnico-sonore che entusiasmano e galvanizzano lo spettatore (Gavras è nato come regista di videoclip, alcuni dei quali, come Born Free di M.I.A., notoriamente controversi).
Il punto è che della tragedia annunciata dal titolo e dalle vicende familiari, attorno alle quali lo scontro Athena-polizia ruota, rimane ben poco. L’unità spazio-temporale della linea narrativa è completamente consegnata all’estetizzazione della violenza. Lo sguardo immersivo di Gavras manca l’appuntamento con la profondità e con l’esplorazione dei diversi punti di vista dei suoi eroi tragici, tenuti maggiormente in considerazione, ad esempio, ne I miserabili (e Ladj Ly ha collaborato alla sceneggiatura di Athena con lo stesso Gavras e Elias Belkeddar).
Le ragioni, i moti d’animo e i conflitti interiori dei tre fratelli sono affrontati solo nello spazio d’azione della rabbia e dell’esasperazione. Nessun dialogo, nessun confronto aperto che porti a una comprensione delle loro “passioni” tragiche; tutto è ebbrezza dell’evento e della decisione istintiva, perché tutto è già scontro. E di questo ci si ricorda, non dell’umanità di Athena che Gavras tratteggia ma non incide sulla pellicola (la madre dei fratelli compare una sola volta; l’ex terrorista Sébastien e i giovani della comunità non hanno una storia, agiscono e basta).
Anche per questi motivi il finale sembra più ammiccare che colpire lo spettatore. “Dietro ogni guerra si nasconde una manipolazione, una bugia originale […]. Ci sono sempre forze nell’ombra che nutrono l’ostilità: sanno che quando il dolore intimo è troppo grande, la violenza acceca il pensiero, e quando la nazione è fragile, è facile spingerla nel baratro”, ha affermato Gavras. E il finale mostra come i conflitti di Athena siano stati originati deliberatamente da poteri che sanno come la periferia possa esplodere da un momento all’altro e diventare così, agli occhi della politica e della società, ricettacolo di tutti i mali. Senza però la forza oggettiva della tragedia, di cui tuttavia inizialmente Athena si fa carico, il finale finisce per essere figlio di una soggettività del regista che, dopo aver mostrato lo spettacolo della violenza, punta a impressionare anche dal punto di vista narrativo, mostrando le contraddizioni e i pericoli del nostro presente in un’ottica che può sfiorare la gratificazione. Insomma una tragedia che non scardina l’animo, ma lo scuote in superficie.
Athena è quello che, in questi casi, si dice film divisivo: Gavras affronta la banlieu e le sue complessità alla ricerca di una spettacolarizzazione visiva, valorizzata dal suo talento e dal suo stile riconoscibile; una scelta provocatoria, che può tuttavia mettere in crisi chi cerca di affrontare gli incubi del presente radicalmente, mettendo innanzitutto in discussione le proprie convinzioni.