Uscito in anteprima il 18 settembre, in occasione della prima giornata dell’iniziativa ‘Cinema in festa’, Beast, nuovo film di Baltasar Kormákur con protagonista Idris Elba, sarà in sala da domani, 22 settembre.
L’attore inglese interpreta Nate Daniels, medico newyorkese che porta in vacanza le figlie in Sudafrica, nella riserva gestita dall’amico Martin (Shartlo Copley). Il rapporto tra il padre e le ragazze, Norah e Mer (Leah Jeffries e Iyana Halley), si è da tempo deteriorato: su di lui grava la colpa di essere stato assente dalla loro vita, soprattutto durante la malattia della madre, morta da poco, dalla quale l’uomo si era separato.
Il viaggio in Sudafrica, terra d’origine della donna, rappresenta per Nate la possibilità di riconciliarsi e riavvicinarsi alle figlie. Ad ostacolare e rimandare l’appuntamento di una ritrovata armonia familiare, un pericoloso leone, la belva del titolo, che, assetato di vendetta nei confronti dei bracconieri della zona, ha intrapreso una lotta all’ultimo sangue con gli esseri umani. Nate dovrà difendere le figlie dall’animale, in tutti i modi.
Beast: uomo vs animale, l’eredità della lezione spielberghiana
Delineata la trama, che scorre con una certa prevedibilità, è logico far rientrare Beast nella categoria survival drama. E si tratta in effetti di un film di sopravvivenza in piena regola, che la regia di Kormákur regge compiutamente, senza sorprese o iniziative originali. Anzi: il padre di famiglia che difende il nucleo familiare dal pericolo, la natura che, nella figura del leone demoniaco, si ribella alla crudeltà umana, il sacrificio di uno dei protagonisti per salvare tutti gli altri sono elementi già visti ripetutamente in film di questo genere. Il tocco di Kormákur si rende evidente, come accaduto in Everest (2015), altro survival dai toni comunque più epici, per la sua attenzione stilistica ai fatti, più che alla psicologia o all’evoluzione narrativa dei personaggi. In Beast l’azione e gli scontri leone-uomo prevalgono sulla linea narrativa, marcatamente “blockbuster”, tanto da sembrare il focus primario del regista islandese. In particolare l’ampio ricorso ai piani sequenza fa sì che l’entrata in scena del leone sia quasi sempre percepita con uno scarto temporale minimo tra lo spettatore e i protagonisti. Una scelta registica funzionale alla suspense, ma anche sintomo della volontà di Kormákur di rendere suo un materiale narrativo standardizzato. Che il nemico da combattere sia un leone e non una creatura mostruosa, inoltre, viene rivelato a poco a poco: la belva ci viene mostrata per intero e in tutta la sua maestosità quaranta minuti dopo l’inizio del film. Un iniziale occultamento della potenza e ferocia dell’animale inaugurata da Steven Spielberg in Jurassic Park (la figlia maggiore di Nate indossa una maglietta con il logo della pellicola che nel 1993 aprì la strada alla CGI per realizzare i dinosauri in live action). All’inizio del film, i dinosauri creati dagli scienziati di Hammond non vengono mostrati allo spettatore: sono dentro una gabbia che gli operai stanno spostando; si avverte la loro forza, ma il loro aspetto è negato alla vista. Una sequenza che preannuncia il precario controllo dell’essere umano nei confronti dell’animale, reso merce da ingabbiare e spettacolarizzare.
In Beast questa cifra simbolica non viene poi valorizzata in un senso narrativo: come visto, in Kormákur prevale di più l’interesse all’evoluzione visiva. L’impianto narrativo, solido nella sua semplicità, non presenta approfondimenti e riflessioni particolari e risulta forse troppo sacrificato. Il leone si vendica di uno spietato gruppo di bracconieri, le cui azioni e dinamiche non vengono però indagate. La figura di Martin, zoologo che ha instaurato un rapporto speciale con alcuni leoni della riserva, non esplora la problematicità del leone altro impegnato ad annientare l’uomo. Anche il rapporto tra Nate e le figlie non presenta particolari sussulti. Certo Elba – in un film nuovamente ambientato in Africa dopo Beasts of No Nation (2015) – offre un’interpretazione riuscita e brillante, ma che non basta a compensare l’assenza di una verticalità dirompente in grado di smuovere la consequenzialità dell’arco narrativo.
Nonostante queste criticità sul piano narrativo, Beast è un film riuscito e soprattutto un’opera interessante da analizzare, che conferma, una volta di più, l’islandese come uno dei registi più particolari e curiosi del panorama attuale. Colpisce ad esempio come il rapporto uomo-animale sia stato già affrontato da Kormákur in un lavoro completamente agli antipodi rispetto a Beast. In The Deep (2012), film tratto da una storia vera, il protagonista Gulli (Ólafur Darri Ólafsson) riesce a salvarsi dal naufragio di un peschereccio, resistendo tutta una notte alle temperature gelide e mortali delle acque al largo delle isole Vestmann. Un altro dramma di sopravvivenza, dove l’uomo si misura non con un solo nemico, ma con tutta la natura. Girato sempre con lo stesso stile essenziale, ma con un’ottica documentaristica, The Deep fa entrare lo spettatore nella psicologia del protagonista, considerato da suoi concittadini un animale marino, una specie di uomo-foca e una cavia da studiare per i medici. Sul rapporto tra uomo e animalità, Kormákur ha realizzato due film diversi per intensità e approccio, dimostrando una naturalezza eccezionale nell’assolvere ai compiti di sceneggiatura e alla personale esigenza di sguardo.