Ancora disponibile su Prime Video, Happy End è l’ultimo film di Michael Haneke e raccoglie con rassegnazione dilagante gli strali ghiacciati con cui l’autore austriaco sfregia il suo tipico ritratto abulico della società che lo circonda, una collettività di figurine stolide, incapace di esercitare alcun tipo di sentimento, abituata alla gerarchia del censo, inadatta ad integrarsi con il nuovo mondo che chiede accoglienza, incapace di fare delle moderne tecnologie un uso che non sia distruttivo ed autosabotante.
Cinque anni dopo Amour (Oscar come miglior film straniero nel 2013), il regista torna a scrivere e dirigere il suo teatro di stucchi ed alienazione emotiva, un panorama crudelmente familiare, confermando la sfiducia di senso, morale ed ontologico, verso la classe borghese, pubblicamente composta e privatamente impietosa.
Happy end – Trama
Al centro delle vicende c’è la famiglia dei Laurent, alta borghesia responsabile di una grande ditta edilizia e di importanti appalti, che vive a Calais, cittadina francese di frontiera, nucleo nevralgico per l’accoglienza e lo smistamento degli immigrati sfuggiti alle onde del Mediterraneo. Georges (Jean Louis Trintignant) è il capofamiglia, uomo anziano, stanco di tutto e di tutti, ormai desideroso di togliersi la vita; accanto a lui ha due figli.
Anne (Isabelle Huppert) è un asettico manager degli affari paterni che gestisce insieme al figlio Pierre (Franz Rogowski) giovane esagitato, dall’alcool facile e dalle frequentazioni non tranquille. L’altro è Thomas (Mathieu Kassovitz), chirurgo al suo secondo matrimonio con la giovane Anais (Laura Verlinden) da cui ha appena avuto un bambino, e che si trova a gestire Eve (Fantine Harduin) figlia tredicenne di primo letto venuta a vivere con loro dopo che la madre è stata ricoverata per una grave intossicazione.
Un affresco decadente di incroci familiari apatici, irrisolti, disfunzionali, in cui esistono segreti e non detti con forti gradi di crudeltà e disperazione, ma di cui si fa cronaca accessoria, accenno collaterale, come un’appendice casualmente affiorata.
La comunicazione fittizia crea una sorta di pax asfissiante, catalettica, in cui si osserva vivere e non si vive, la telecamera viene fissata e fissa, in tralice o ingombrante, scomoda ebete del male, contempla e rimanda una staticità esistenziale e di coscienza, un’ottusità abbagliante, talmente incancrenita da far perdere il perimetro di sé.
Ogni scena si svolge ad una distanza siderale, ossia in coerenza con lo stile Haneke: nella mente dei personaggi non si entra; il loro cuore praticamente non esiste, non sono esseri senzienti e si aggirano nelle rispettive giungle in cui si sentono vincitori inattaccabili e padroni usuali, tra servitù marocchina, operai anonimi che precipitano nei cantieri come pupazzi, ragazzi di strada che si muovono in branchi e non capiscono la lingua.
Un documentario sulle vestigia degli esseri umani nel cui meccanismo non entra l’empatia dello spettatore, ma il suo cervello, e non sono contemplate sbavature o crepe: quando cenni di crisi affiorano disordinati in superficie, come possono esserlo i colpi di testa di Pierre o le lacrime improvvise ed il tentato suicidio della piccola Eve, è un panico istantaneo, appena epidermico, un bug del sistema, un’interruzione casuale del reale segnale, tanto “le trasmissioni che non trasmettono” riprenderanno il prima possibile.
Di fatto la ribellione non è contemplata: se accade genera imbarazzo, deficit di accoglienza, maldestra ricomposizione della routine ex-ante; nessun morto o ferito apparente lasciato in strada.
In Happy end l’anestesia etica di Haneke diventa completa, l’assuefazione al distacco si totalizza, con l’intromissione analgesica dello strumento tecnologico e la perdita di senso dell’involucro familiare ritratto nel suo glaciale, irraggiungibile malessere.
Il disagio personale, l’isolamento, le bugie, le fantasie feroci, la depressione, la morte inflitta, cercata, trovata, si spiano, si sfogano, si nascondono e si registrano su cellulari, chat di social, computer sempre a portata di mano e sempre deviati verso un abuso privato e degradato del mezzo.
Si “inscena” la negazione del rapporto, l’anti-vita cristallizzata su schermo, un’ implosione astrale del dolore, che colloca gli individui in potenza e con esso il cinema che li ritrae un passo fuori dell’umanità: che interesse c’è a filmare un’apocalisse di così misera entità?
Chi l’avrebbe mai detto che questo sarebbe diventato il presente dominante, nonché il fondamento di un futuro disorientante e pericoloso. Chi lo abita non è più guardabile, non è materia interessante, meglio ostacolarne la visione, allontanarla, impedirla, frapporvi qualche altra cosa, in una geometria della scena scomoda, non sempre fruibile, a misura di cose inerti che fanno solo rumore nel mondo.
Così Happy end appronta una radiografia profetica della classe benestante, il ceto che il mondo dovrebbe guidarlo, il mito tutto europeo che Haneke demolisce e non sutura con acuta, impassibile perizia.
La macchina da presa ritrae solo punti di arrivo, poiché il processo è annullato; noi constatiamo unicamente risultati scenici praticamente inerti, gli eventi sono omessi, o rimossi; l’organicità resiste e rantola in pochi sprazzi, il tempo scorre e non sembra, non ce ne si accorge, perché non serve più accorgersene perché il suo scorrere non porta nulla di nuovo anzi non insegna mai niente e gli errori barbari di sempre si replicano, le insidie diaboliche dell’ uomo borghese tornano recidive come il male che governa il mondo.
Non si va veramente avanti, un futuro non può essere partorito da una società cosi, le settimane i giorni o gli anni non scorrono davvero, sono immobili, sono quadri animati con echi di azioni, racconti terribili, squarci di conseguenze di errori, senza cenno alcuno di pentimento, mai.
Un carrozzone di melma che sta su con il tonfo-trionfo del proprio potere, del disprezzo razzista ipodermico con cui si sostiene nel controllare il circostante, con la pura indifferenza e il più accurato dis-ascolto con cui si riesca a stare al mondo.
Solo lo morte contiene ed esprime la verità delle loro esistenze: che sia quella di un operaio immigrato deceduto nel loro cantiere, che sia quella di una madre avvelenata da una figlia che non sopportava più le sue lagne da crepacuore, che sia quella di un’anziana compagna di vita devastata dalla propria malattia.
La morte è l’happy end insperata, sacra e mai fatta vedere, lo scampo di questi infelici individui, soli ad un livello che va oltre il consapevole, disamorati e disamoranti verso qualunque cosa gli accada e verso chiunque gli si accosti, alla fredda maniera heinekiana, che diventa micidiale specie nei momenti di maggiore difficoltà o di sussulto rispetto al destino.
Happy end – Cast
Nel cast ritroviamo la forza del da poco scomparso Trintignant, che porta con sé la storia di Amour e la continua in una sorta di sequel interiore per il personaggio ed esteriore per il regista, un fil rouge dal differente impatto ma dal medesimo spessore scenico. Accanto a lui la severità nichilista della Huppert, anche lei presente in Amour, La pianista di Haneke, che sublima nel rigore il proprio dolore, qui campionessa di un’incomunicabilità magistrale e sorda.
Kassovitz ambiguo e indifferente alla gravità della vita, disinibito senza merito, Rogowski allora come ora sempre bravissimo, con la sua ostilità giovanile, esistenziale, che grida umanità nel volto e nei movimenti e la giovane Harduin statua di cera, enigmatica ed inquietante.
Happy end fotografa il declino immobile di una promessa mancata, forse mai stata e nega ogni soddisfazione: ci saremmo aspettati un redde rationem più fremente o delirante, ed invece il monito di Haneke è che di esplosione muoiono i vivi; per i morti che camminano, la fine è un lento scivolare di unghie sulla lavagna sotto l’obiettivo intorpidito di chissà chi.