Ride trama
Bruno (Arturo Marchetti), dodici anni, dice a tutti che da quando gli è morto il padre, sua madre non piange, ma ride. E Carolina (Chiara Martegiani), infatti, vedova da pochi giorni, sembra non fare una piega: siede sul divano del suo appartamento, oppure sul water del bagno o su una sedia al tavolo della cucina e non le esce una lacrima. Dorme, mangia, sta bene e si sente in colpa per questo.
Il suo Mauro (Lino Musella), operaio pieno di amici, è morto sul lavoro; l’indomani si terranno i funerali con tanto di corteo a partire dalla fabbrica, ed è prevista la presenza di televisori e giornalisti pronti a piangere sul latte versato, facendo predica consueta sulla mancata sicurezza nelle fabbriche; ma lei, la consorte inconsolabile, non riesce a strapparsi i capelli.
Apparecchia tutti i giorni per lui, finge di fare la pasta e di osservarlo mangiare, riascolta tutte le canzoni della loro storia, sperando di crollare e, puntualmente, non crolla.
Si avvicendano improbabili vicini di casa o conoscenti sconosciuti, tutti con un pensiero più o meno banale sull’infausto evento, distratti da loro stessi, dai loro inopportuni ricordi, lamenti imbarazzanti, sentenze non richieste e lacrime, ma niente: gli occhi di Carolina rimangono asciutti.
Nel frattempo il mondo che la circonda digerisce il lutto a suo modo: Cesare (Renato Carpentieri), il padre di Mauro, ex-operaio in pensione, si riconcilia in qualche modo con la morte ingiusta del figlio, il quale ne seguì le orme in fabbrica per affetto, Nicola (Stefano Dionisi), il fratello uscito di prigione, il figlio sbagliato, affranto dalla perdita, forza questa riconciliazione, e Bruno, neo-orfano, stenta a rendersi conto dell’accaduto, impara a memoria le battute da dire in un’ipotetica intervista da rilasciare al funerale e si prepara con un bell’ombrello a fronteggiare insieme alla madre la “bomba d’acqua”, che prima o poi, arriverà sulle loro teste e li farà piangere definitivamente.
Ride in streaming su RaiPlay
Ride è la prima volta alla regia di un lungometraggio per Valerio Mastandrea, esclusa la sua esperienza dietro la macchina da presa in un corto risalente ad alcuni anni fa: lavoro del 2018, presentato al Torino Film Festival dello stesso anno, benedetto da un generoso Nastro d’argento nel 2019 come miglior regista esordiente (ex-aequo con Leonardo D’Agostini per Il campione), oggi recuperabile agilmente sulla piattaforma di Raiplay.
Ride si presenta come una commedia in veste drammatica, in cui si affrontano vari temi che vanno dall’elaborazione di un lutto importante, alla conflittualità familiare e generazionale, fino alle morti bianche sul lavoro.
Dice Mastandrea di essersi ispirato a Claudio Caligari per l’ambientazione e il tono prescelto, forse perché, come molti hanno sottolineato, la Nettuno che fa da sfondo all’ ambientazione di Ride ricorda l’Ostia smarrita di Non essere cattivo, la periferia finta addormentata, laterale, sporca nel parlare, o forse perché i colori, evanescenti ed assolati che il mare si porta nell’entroterra, sembrano appiattire ogni differenza in entrambe le opere, ma a parte questo non riscontriamo un’ispirazione profonda in tal senso, al massimo un omaggio a qualche odore che emergeva nelle inquadrature del maestro.
Questo perché di fatto Ride mescola elementi reali a cenni di viaggio surreale, intrecciando, in modo non bilanciato, vissuto concreto, problematiche sociali spinose e situazioni di humor compresso e grottesco; lo fa schivando in ogni modo il melodramma, e rifugiandosi, al contrario, in un’ironia anche benigna ed intelligente, nata dalle circostanze, con cui rivendica il diritto di potersi approcciare ad una perdita devastante in assoluta indipendenza e libertà, perché se nemmeno davanti alla morte si è autonomi nell’esprimere i propri sentimenti così come vengono, allora tutta la vita è ben passibile di essere una farsa.
Ride recensione del film di Valerio Mastrandrea
Carattere farsesco hanno difatti gli incontri con “i vicini addolorati”, che lamentano un dolore cui la legittima proprietaria dello stesso non riesce a dare parole, che confessano crisi private e debolezze come se quelli fossero il momento e la circostanza più adatti e sacrosanti per farlo, che decidono su come e cosa debba trasparire dal volto di una giovane vedova nel giorno dell’addio solenne al proprio consorte.
Carolina ascolta sospesa intimamente, incredula, con la stupefazione contenuta negli occhi ed un sorriso inespresso che inarca di poco il suo bel viso: dov’è il dolore? Com’è il dolore? Come si affronta un distacco eclatante e soprattutto improvviso?
Non c’è un manuale, né una formula aritmetica; tutto può significare tutto ed il suo contrario, inutile dare ascolto ad aspettative che si rivelano giudicanti persino in questo campo.
Mauro, l’amato non compianto, è il presente assente della favola, un convitato di pietra: c’è ma non c’è, tutti ne parlano, ma il suo volto non si vede mai, in parecchi raccontano il bello o lo strazio della sua breve vita, ma a malapena rintracciamo la sua voce in una nota vocale su cellulare o sbirciamo la sua presenza fisica sul finale, in cui appare a compensare un dovuto commiato.
Stesso effetto straniante, tenero e comico insieme, ha l’atteggiamento di Bruno, impegnato, più seriamente che può, a prepararsi per essere altro da sé il giorno in cui dovrà congedarsi dal padre per sempre: un tentativo di bypassare il dolore, una cosa da adulti fatti e finiti, sul volto di un bambino cui manca un incisivo.
Accanto a questo binario, scorre quello del dolore canonico e combattuto del padre Cesare, una generazione che faceva la differenza, che picchettava e faceva scioperi, che significava forza nel patto sociale, dettava i titoli dei giornali, si opponeva con rumore, segnava la storia e le condizioni della classe operaia ed oggi è messa all’angolo dal nuovo liberismo sfrontato, dal tempo che le ha scavato addosso l’impotenza e gli impedisce di proteggere chi dovrebbe.
Sono i padri che ci sono stati quando avrebbero dovuto allentare la presa e sono stati assenti quando l’irreparabile accadeva; sono gli anziani che sopravvivono ai figli, a quei figli che sono scappati di mano, chi per strade sbagliate, chi rimettendoci la vita, senza prendersi nemmeno una carezza prima del buio; sono quei padri che non danno perdono a se stessi.
Ride è un film di attori e per attori: prevale l’attenzione alla situazione e all’esplorazione della stessa da parte degli interpreti, sulla gittata del disegno complessivo: Carolina che cerca di ricostruire il pianto della ex del marito, riproponendone le mosse fisiche, Bruno che impara a memoria le battute di un dialogo, l’anziana vicina (bravissima la Vucotich) che trucca il viso della donna per prepararla al pubblico palcoscenico, senza esimersi dal rincurorarla con “un tanto poi passa quando capisci che la prossima della lista sei tu”, ribadendo il cinismo nichilista su cui si poggia l’equilibrio illusorio del nostro quotidiano.
Molto di quel che vediamo è frutto di esercizio dell’ intelligenza attoriale, portata avanti da interpreti freschi, più che convincenti, che illuminano di semplicità e verosimiglianza ogni parola o spazio ripreso, con un candore ed una giustezza che l’occhio addetto di Mastandrea non sottovaluta mai e lascia esprimere al meglio: i due ragazzini su tutti sono calamite perfette nei loro incisivi dialoghi.
Manca però un calibro nell’amalgama complessivo, a volte dramma familiare anche violento (come quello tra padre e fratello criminale), che intinge il dito nel fronte caldo del sociale, a volte commedia dalle basi amare, semiseria, quasi da camera, che porta se stessa a sconfinare nel metafisico fantastico del finale, su lidi comunque assolutori, soprattutto se accostata alla dedica finale rivolta “a chi resta”.
Pur riservando singoli momenti giustamente tematizzati, originali e ben recitati, che non così spesso vediamo rappresentati con questa leggera libertà, il risultato risulta esile e schematico nella durata, si esaurisce in un’inerzia di frammenti scenici che fanno troppo affidamento sull’architettura situazionistica e meno sulla traiettoria registica e testuale.
Manca una vis superiore, una direzione altra che raccolga il materiale, gli fornisca priorità interna, necessità, carattere dominante ed una responsabilità scomoda, oltre al raro, meritorio, purtroppo non sufficiente, amore con cui si percepisce essere pensata, osservata e girata ogni singola sequenza.