“I vecchi peccati hanno l’ombra lunga”. Le azioni riprovevoli non solo macchiano le mani di chi le compie ma sembra che l’eco del dolore generato si riesca ad udire anche a decenni di distanza. Come una serie di urti di ritorno destinati a bastonare le generazioni che quelle mani insudiciate hanno plasmato. Perché il passato non cessa mai di essere presente, e il futuro tarda sempre ad arrivare quando ciò che è lontano riaffiora. Nel mondo cinereo e fosco in 35mm di “Un volto, due destini” la memoria familiare è rifugio costretto e supplizio costante: la competizione contro il destino è già persa perché esso ci dà la caccia da prima che noi esistessimo.
“I Know This Much Is True – Un volto, due destini”, adattamento in sei parti della HBO del bestseller di Wally Lamb “La notte e il giorno”, è un dramma crudo e raffinato. Un torrente lasciato libero di fluire senza deviazioni nella vastità sconfinata del dolore. Servirà molto coraggio per acconsentire ad essere attraversati da una storia a così alto tasso di disperazione. Derek Cianfrance non vanificherà l’enorme investimento emozionale richiesto. Il regista continua ad esprimere coerentemente la sua idea di melodramma naturalistico ambientando il libro di Lamb lungo strade anonime, in corridoi incolore e interni plumbei, dove persino il calore familiare ha l’odore stantio della polvere.
Il melodramma antropologico di Cianfrance si conferma altamente riconoscibile. Dal primo lungometraggio, il puro ed emotivamente disarmentate “Blue Valentine”, al film dove tutto accade due volte lungo quella strada zeppa dei medesimi errori irreparabili “The Place Beyond the Pines”, sino al più maturo “I Know This Much Is True – Un volto, due destini”, sono l’intima dissoluzione dei legami e l’ereditarietà della colpa a compitare con la crudele precisione di un inesorabile metronomo il densissimo traffico di dolore che fluisce nell’umana esistenza.
“Un volto, due destini”, in Italia trasmessa su Sky Atlantic, è una miniserie che raggiunge momenti di un’autenticità rara per il piccolo schermo, brandendo la sofferenza di cui è intrisa per scuotere lo spettatore. Un risultato che non sarebbe stato raggiunto a pieno titolo se questa storia avesse dovuto fare a meno della doppia prova appassionata di Mark Ruffalo (la sua interpretazione è stata premiata con il premio Emmy e con il Golden Globe). Ruffalo, al quadrato, è nervi, cuore e increspature di due esistenze piegate dal dolore: i fratelli gemelli Dominick e Thomas Birdsey. Il primo trabocca rabbia a malapena contenuta per una vita disastrosa; il secondo uno schizofrenico paranoico, quasi orgogliosamente infelice, convinto di poter risanare i soprusi dell’America intera mediante il suo sacrificio.
Non lasciatevi ingannare dall’inopportunità del titolo per la nostra edizione italiana. Questa storia non adotta mai il tono da soap opera che ci si aspetterebbe da un titolo che fa leva sul complicato rapporto tra due gemelli che condividono l’aspetto ma non le aspirazioni. Qui c’è molto di più: nonostante la drammaticità del racconto si è ben lontani dalla drammatizzazione da fiction. In nessuna delle sei puntate troverete il dolore urlato tra le lacrime. Solo la graduale e torpida accettazione di un destino miserabile.
In un nord-est made in USA immerso nelle contraddizioni fatali scaturite dalla deflagrazione del sogno americano, icona di quella prospettiva suburbana che rende la ferite del paese ben evidenti, si logorano le vite dei due fratelli Birdsey. Nati a sei minuti di distanza, ma in due anni diversi, tra la fine dell’anno passato e quello che verrà. A ben guardare tutto il resto della loro vita sarà in bilico. Sospesa tra l’insostenibile peso di un passato tacitato, ma desinato a riaffiorare, e un futuro in ritardo, perennemente ostacolato dalle beffe del destino.
1990. La Guerra del Golfo è imminente. Morti, distruzione, colpe da redimere. Thomas Birdsey si presenta nella biblioteca di Three Rivers, nel Connecticut, e con un coltello si amputa la mano. Recitando la Bibbia il suo convincimento si fa granitico, tanto da non essere sopraffatto dal dolore. Resta vigile per tutto il tempo. Fino a quando in ospedale spiegherà ai medici di averlo fatto nell’intento di compiere un sacrificio per sventare l’arrivo di una nuova guerra. Il fratello Dominick, lacerato dal senso di responsabilità, si presenta in ospedale già stremato. Non è la prima volta che la malattia mentale del fratello rende la sua vita un inferno. Una vita che già di per sé è stata insopportabile.
La madre (Melissa Leo) è appena morta di cancro, e nemmeno sul letto di morte ha confidato ai figli l’identità del loro padre biologico. L’anaffettiva presenza del severo patrigno Ray (John Procaccino) ha provato a sopperire alla mancanza del vero padre. Egli però si è rivelato un genitore violento, rancoroso, emotivamente distante. Il matrimonio con Dessa (Kathryn Hahn) è andato in pezzi subito dopo la morte improvvisa della loro bambina. Domenick è solo, tormentato dalle schegge di un passato che riemerge con ricordi confusi. Un’infanzia in cui si riscopre con gli stessi prepotenti istinti dell’odiato patrigno e con le medesime fragilità dell’apprensiva madre.
Quando Thomas, a seguito del tragico evento in biblioteca, viene trasferito in una struttura di massima sicurezza, Domenick sarà letteralmente ossessionato dalla necessità di farlo uscire da un posto così ostile. Forse se ci riuscisse il senso di colpa per aver mal sopportato la presenza ingombrante di un fratello afflitto da schizofrenia smetterebbe di dargli il tormento. Ma se il disperato procedere del caso non si è mai riusciti a domarlo, è molto difficile che ci si riesca quando ci si è già perduti.
Domenick ripenserà a tutta la sua vita, alle sofferenze del fratello, ai bambini che sono stati, il primo arrabbiato per la stranezza dell’altro, il secondo infelice per l’incomunicabilità della sua afflizione. Domenick tenterà, seppur nutrendo un enorme timore della verità, di scoprire l’identità del loro vero padre. Quasi questa fosse l’inesorabile ulteriore punizione necessaria da aggiungere all’ininterrotta serie di congiunture crudeli.
Viene naturale domandarsi in effetti se la figura cristologica dell’uomo che soffre consapevolmente per riparare i peccati del mondo sia quella rappresentata dal gemello Thomas, che si appella chiaramente a questa intenzione per giustificare la sua persecuzione paranoide, o il fratello Domenick, immolato inconsapevolmente sull’altare del dolore, condannato dai peccati commessi da qualcun altro.
“Un volto, due destini” è una tragedia che annichilisce lo spazio che generalmente è concesso alla tregua, alla rinascita, alla risalita. Il susseguirsi di eventi nefasti sembra essere manovrato da un Dio divertito dalle speranze soffocate e dalle spiegazioni tardive. Esattamente come accade per le memorie del nonno di origine italiane, che molto avrebbe potuto chiarire circa il passato oscuro di questa famiglia, ma che viene perduto, sottratto per capriccio, poi ritrovato, lasciando ciononostante nuovi dubbi.
La sorte è puntualmente avversa, ma Cianfrance non si delizia nel dolore. Il pericolo che incombe con narrazioni dotate di questa intensità drammatica è proprio quello di perdere di vista il vero, in favore di una sofferenza solo rappresentativa. Eppure la regia e i caratteri del racconto si mantengono sempre così abilmente misurati da lasciare i tanti temi – malattia mentale, agli abusi, discriminazione razziale – fluire senza forzature, evidenziandone la consapevolezza autoriale.
Unico sopportabile difetto di “Un volto, due destini” sembrerebbe essere l’excursus dedicato all’intollerante rigidissimo Domenico Tempesta, nonno da cui Dominick sembra non aver eredito solo il nome. Interpretato da un intenso Marcello Fonte (“Dogman“), Domenico ha lasciato la Sicilia per arrivare in America con la testa piena di traguardi da raggiungere. Ma ben presto i suoi propositi diventano feroci e il suo orgoglio insaziabile. Sebbene l’episodio a lui riservato custodisca un vigoroso momento di verità, nell’economia del racconto questo sembra ostacolare la partecipazione dello spettatore al flusso interiore del protagonista.
“Un volto, due destini” è un racconto intimo e doloroso, ma anche una narrazione capace di far affiorare le fragilità di un sistema famiglia le cui debolezze somigliano alle gracilità di un paese intero. Le contraddizioni degli Stati Uniti riecheggiano nella martoriata ricerca identitaria di Thomas: le guerre sanguinose (Guerra del Golfo, Vietnam, Guerra di Corea sono tutte nominate), l’oppressione delle minoranze, i drammi migratori e le logiche patriarcali imperanti. Sono molto numerose e dannatamente buie le ombre che si allungano sulla storia di questa famiglia. Persino alcuni traumi apparentemente motivati da una triste casualità, sembreranno nascondere nefandezze derivanti da un corrotto libero arbitrio. Ma non tutte le violenze che faranno capolino nella vicenda corrisponderanno necessariamente al vero. Alcune tra le possibilità più aberranti saranno persino scansate, per riflettere su quanto di marcio possa essere partorito all’ombra del focolare di famiglia.
“Un volto, due destini” si muove libera dai vincoli temporali: ha la struttura della vita stessa, nella misura in cui viene ripensata, ricordata e rievocata, con tutti gli errori in cui la mente inciampa nel lasciarla riaffiorare dal passato. Ambientata in un non luogo allegorico, capace di magnificare amaramente la desolazione interiore dei personaggi, la narrazione è assecondata a pieno dalla fotografia di Jody Lee Lipes (sua anche la fotografia di “Manchester by the Sea“, altra opera in cui l’ambiente riflette rovina e abbandono). I colori sono sporchi, opacizzati, come avviene quando la luce del sole è filtrata da una coltre tersa di nubi. Una scelta precisa che si sposa perfettamente con lo stile di regia: si indaga sui primi piani, quasi staccandoli con forza dal grigiore degli sfondi, amplificando il senso di intimità e lo smarrimento spaziale.
Lo sguardo di Cianfrance sceglie il punto di vista di Dominick per abbracciare l’intero dramma. È sul suo volto che leggiamo le tante sfumature di questa complessa, dolorosa e stratifica storia famigliare. È attraverso lo sguardo del Ruffalo collerico e vigile che conosciamo il conflitto interiore dell’altro Ruffalo, dall’espressione insofferente e represso dai farmaci. Mark Ruffalo dà prova di un’intensità sublime: bravissimo nel rappresentare una persona schizofrenica con umanità e misura, ancor più abile nel vestire i panni di uomo la cui disperazione è così profonda da restare in parte imperscrutabile.
Per l’interpretazione di entrambi i gemelli Birdsey, Mark Ruffalo si è prima calato nei panni del disperato Dominick, portando a termine tutte le scene che lo vedono protagonista, per poi tagliare la barba e ingrassare ben 13 kg nell’arco di un solo mese per interpretare Thomas. Ruffalo è capace di interagire con se stesso con considerevole credibilità: i due gemelli non differiscono solo nel look, ma sono gli sguardi, le increspature della bocca, i movimenti a distinguerli. Notevole anche l’interpretazione di Philip Ettinger, che veste i panni di entrambi i fratelli nella loro versione più giovane, ai tempo del college.
Non vi è molta speranza ad attenderci sulla linea del traguardo, forse solo un’intuizione. “Un volto, due destini” è una miniserie dolorosissima, ma dalla quale difficilmente domanderete di essere liberati prima del suo completo svolgimento.