In un mondo in cui sei o preda o predatore, io sono una fottuta leonessa. Questo è ciò che si ripete Marla ogni mattina quando incrocia la sua impeccabile algida figura riflessa nello specchio. I suoi cuccioli sono l’avidità e il successo e i suoi artigli sono i soldi, soldi che non vede l’ora di usare come un impietoso grimaldello, come solo i veri ricchi possono fare. “I Care a Lot” è una commedia che affonda le mani nel vaso della meschinità umana: laddove vi sono persone che necessitano di tutela e cura, qualcuno scorge solo una fortunata serie di eventi che è possibile sfruttare a proprio vantaggio.
Il regista britannico J Blakeson (“La scompara di Alice Creed”) realizza una pellicola in cui Rosamunde Pike (“Gone Girl”) veste alla perfezione i panni dell’avarizia incontrollata e Peter Dinklage (“Il Trono di Spade”) quelli di un sistema economico che per autoalimentarsi deve fagocitare ogni regola di principio, svendendo persino l’efferata credibilità della mafia russa.
È bene non lasciarsi ingannare dai grandi e grossi propositi di questa storia. Qui non si intende denunciare alcun fattaccio. Non si prendono posizioni, e non si perde tempo ad interrogarsi su chi possa avvalersi di una qualche ragionevole giustificazione per le proprie bieche nefandezze. Nessuno ha ragione, semplicemente perché hanno tutti dannatamente torto. “I Care a Lot” è una guerra tra villain senza omissione di colpi bassi. E che a fare le spese di questa intestina battaglia tra carogne siano ignari vecchietti rende solo il lato oscuro di questa commedia tristemente realistico.
Un bob biondo e affilato indossato come un elmetto, abiti monocromatici messi indosso come un’armatura, una sigaretta elettronica sempre tra le dita perché le donne in carriera usano così. Nulla è lasciato al caso nella lotta all’arricchimento quotidiano di Marla Grayson (R. Pike). “Giocare leale è uno scherzo inventato dai ricchi per mantenere povero il resto di noi”. È questa la sua debole giustificazione alla truffa. Lei non ruba, non punta pistole alla tempia, non minaccia. A lei basta attenersi alla legge.
Mentire, neutralizzare ed espropriare. Ingannare lo stato sull’incapacità di intendere e volere di un qualche malcapitato, bloccarlo in una cella deluxe dotata di ogni confort, e accumulare ogni cosa sulla propria persona. L’ammontare dei conti in banca, il denaro ricavato dalla vendita di ogni bene immobile, il contenuto delle cassette di sicurezza. È la legge che lo permette. E in nome di una legge nata per salvaguardare, e grazie alla reiterata pigrizia di controllare la veridicità di quanto affermato in tribunale, Marla Grayson ha messo a punto un business tanto redditizio quanto spregevole.
Appoggiandosi a medici venduti e giudici allocchi ottiene la tutela legale di anziani indifesi, li sistema in casa di riposo assicurandosi che i medicinali blandiscano ogni tentativo di ribellione, e gestisce in piena libertà e in totale osservanza della legge i beni degli “inabili” reclusi. Se poi ci sono figli, poco male: Marla impedisce loro qualsiasi contatto coi genitori convincendo il giudice che questi rendono inquieti gli anziani degenti. Il suo sistema funziona alla perfezione. Quando le si presenta l’occasione di apporre una golosissima ciliegina sulla sua proficua torta Marla non riesce a contenere l’entusiasmo.
Un medico fidato e corrotto le propone la gallina dalle uova d’oro Jennifer Peterson (Dianne Wiest). Una donna sola, indipendente, in possesso di una bella casa, con parecchio denaro in banca. Non ancora troppo vecchia da far pensare ad una dipartita nel breve tempo, ma con quel lieve principio di demenza sufficiente a persuadere il giudice sulla necessità di intervento di un valido tutore legale. Basterà aggravare un po’ la situazione clinica della vecchina sul rapporto. Il gioco è fatto. O quasi.
Nell’elegante studio di Marla si presenterà un avvocato (Chris Messina), vestito con un completo ornato di cravatta viola uscito direttamente da “I Soprano”) pronto ad offrirle 150mila dollari, adagiati in una comoda valigetta di coccodrillo, a patto di dimenticare il nome di Jennifer Peterson. A questo punto fossimo stati nei costosi panni di Marla avremmo intuito che quella cara vecchina sarebbe stata da liberare al più presto. Evidentemente qualcuno dai modi poco rassicuranti ha molto a cuore il benessere di Jennifer, e sembra essere pronto a tutto per salvaguardarlo. Ma l’inflessibile caschetto biondo di Marla non vuole lasciar perdere. Persino il suo istinto di sopravvivenza è spacciato dinnanzi alla sua cupidigia.
Marla non si fermerà. Mai. Nemmeno dopo aver scoperto che Jennifer Peterson è la madre di Roman Lunyov (Peter Dinklage), boss della criminalità organizzata russa.
“I Care a Lot” è esattamente come Marla. Accanito, irriducibile, a tratti sgradevole. Eppure capace di suscitare una certa fascinazione per i principi, seppur biechi, di cui la sua protagonista si fa spietata portavoce. Ed è questo il pericoloso elemento meglio riuscito del film. J Blakeson corre il rischio, contrapponendo un male civilizzato ad un male criminoso, che lo spettatore possa parteggiare proprio per la bella e impavida truffatrice senza scrupoli. In fondo il cattivissimo boss mafioso è un mammone, che allena le sua abilità da ginnasta agli anelli, mangiando ad ogni occasione enormi pasticcini ricoperti di cioccolato. Nulla in lui ci fa mai sobbalzare dalla paura.
Mentre di Marla e del suo falso sorriso non è possibile non avere timore. Vorremmo darle subito ciò che vuole, levarcela dai piedi, sperando di non incontrarla mai davanti al nostro portone con un provvedimento del tribunale fra le mani. Vorremmo inoltre riuscire a nascondere in gran segreto quella disdicevole invidia per la sua raggelante determinazione che le permette di prendersi tutto ciò che vuole, oltre che di sfoggiare una capigliatura sempre perfetta.
Personaggi cinematografici, che appartengono al mondo del fumetto più che a quello reale, che riescono però, con precisione e buona intuizione di Blakeson, a calarsi in un thriller cartoonesco tutto votato alla satira.
Nella seconda parte del film si perdono un po’ le tracce della povera Jennifer Peterson e dei suoi anziani compagni di sventura. I riflettori sono tutti per lo scontro tra malvagi titani. La biondissima truffatrice di giallo vestita contro una mafia russa un po’ maldestra, ma sempre armata fino ai denti. In quella molto frequentata divisione del mondo tra leoni e agnelli didascalicamente sbandierata in molti, troppi, momenti del film, la pellicola accantona le prede. Omaggia i leoni. Ma fortunatamente non dimentica di fare fuoco contro qualcuno di questi.
Marla Grayson è riuscita a concretizzare la sua personalissima versione del sogno americano. La degenerazione di un sogno che prende vita dalle piaghe dello stesso sistema che quel mito lo ha decantato a forte voce a tutto il mondo.
Tutto è perfettamente legale, basta avere pochi scrupoli. Il personaggio di Rosamund Pike si mostra addirittura arrabbiata con i criminali russi per aver giocato sporco, minacciando con le pistole, invece di battersi con lei nelle aule di tribunale come fanno i truffatori civili.
Tra egoismo e cupidigia, Marla riuscirà persino a dimostrarsi baluardo di valori che per quanto sbagliati le permettono di agguantare il successo. Marla è una self-made woman che getta il sogno americano dritto giù nel baratro criminale. Che il sogno americano sia divenuto un incubo è oramai assai chiaro, ma se questa retorica del concetto preda-predatori stomaca e annoia un po’, in questo caso è bene sottolineare che “I Care a Lot” ha il pregio di far scendere in campo un nuovo coraggioso elemento. Anche il potere al femminile può avere un risvolto negativo. Soprattutto se le donne per farsi valere devono armarsi di spietatezza machista. Nel mettere in scena la deriva dell’autoaffermazione personale femminile, Blakeson rimescola le carte e lascia sul tavolo una buona dose di amoralità, spiazzando il buonismo.
“I Care a Lot” è un film dalle idee chiare, che resta fedele ai suoi propositi fino alla fine: fare satira sul sogno americano alla deriva, mascherando la commedia da grottesco gangster. Rosamund Pike, però, ad un certo punto, sembra riversarsi troppo prepotentemente sulla credibilità del suo personaggio. La Pike, come era prevedibile dopo averla vista in “Gone Girl“, è irresistibile quando mette la sua glaciale bellezza al servizio di personaggi folli e un po’ sadici. Eppure la “mitica Amy” del sopracitato film di Fincher appare quasi come un modello a cui Marla Grayson guarda per imparare ad affilare i coltelli. I due personaggi si ricordano troppo e si guardano dritti negli occhi con eccessiva complicità per garantire al personaggio di “I Care a Lot” piena e originale libertà di movimento.
“I Care a Lot” è una pellicola godibile, con il difetto del reiterato didascalismo non pienamente controbilanciato dal pregio di aver saputo prendere a schiaffi il buonismo imperante. Non ci resta che domandarci cosa sarebbe potuto accadere con un pizzico di coraggiosa depravazione in più.