I am not okay with this è una serie Netflix uscita nel 2020 in pieno periodo covid, solo qualche giorno prima che in Italia iniziasse la quarantena. Ispirata all’omonimo romanzo grafico, la serie mischiando molteplici generi non è riuscita ad ottenere il risultato desiderato e per questo non è stata confermata per una seconda stagione.
I am not okay with this – Trama
Sydney è una ragazza di 17 anni travolta dagli eventi. Suo padre si è suicidato nella cantina di casa l’anno precedente per motivi non ancora chiari, ha una pessima relazione con la madre ed è innamorata della sua amica Dina che però è fidanzata con Bradley, il più forte giocatore di football della scuola. Anche Sydney però ha un corteggiatore, Stanley, un ragazzo originale che cerca di conquistarla a suon di musica indie.
A completare questo quadro già piuttosto complesso si aggiunge l’ingrediente fondamentale della serie: Sydney scopre di avere strani poteri telecinetici che non riesce a controllare ed è costantemente seguita da una figura nera in grado di dissolversi nell’aria. I poteri paranormali sembrano manifestarsi come reazione nei momenti in cui l’adolescente prova emozioni forti e Stanley è il primo che, accidentalmente, lo scopre. Nel corso della stagione Sydney viene a conoscenza del fatto che anche il padre aveva gli stessi potere e che per questo, in aggiunta allo stress post-traumatico dovuto alla guerra, si è tolto la vita. La serie finisce nel momento in cui il vero racconto sta per iniziare. Sydney si trova faccia a faccia con la figura nera e gli chiede: “Chi sei? Devo avere paura?” La figura le risponde: “Sono loro che dovrebbero averla. Cominciamo.”
I am not okay with this – Recensione
I am not okay with this è stato un esperimento alla Stranger Things che non ha funzionato. Il regista della serie Jonathan Entwistle, dopo il successo ottenuto con The End of the F***ing World, ha deciso di adattare per il piccolo schermo un’altra opera dello stesso fumettista indipendente, Charles Forsman, con l’aiuto di Shawn Levy, già regista e produttore di Stranger Things. La serie è infatti un agglomerato di elementi già visti presi da precedenti successi e messi insieme pigramente con la speranza che lo spettatore non se ne accorga. La trama è banale, piena di colpi di scena che non sorprendono e con qualche scena splatter che più che spaventare o divertire ti fa chiedere “perché?”.
Da Stranger Things la serie ha preso il fattore paranormale, da The End of the F***ing World la complessità dei rapporti e la goffaggine dei personaggi invischiati, da Everything Sucks! l’atmosfera mesta dei liceali degli anni ’90 e da The Society la costante sensazione di pericolo. Cos’ha quindi di originale? Purtroppo poco o nulla. Eppure i suoi modesti spettatori li ha guadagnati, perché? Probabilmente perché eravamo rinchiusi in casa e avremmo guardato anche le repliche de Il mio grosso grasso matrimonio Gipsy pur di distrarci. Quasi nessuno però è stato stupito dal mancato rinnovo. Chissà che magari con una seconda stagione la storia si sarebbe sviluppata in un modo insolito ed esaltante e ci avrebbe fatto cambiare idea. Peccato che non lo sapremo mai.
Bisogna, infine, comunque riconoscere la volontà di affrontare temi delicati e significativi come il suicidio, la depressione, la scoperta della propria sessualità, la rabbia adolescenziale e l’amicizia. Nuovi prodotti televisivi o cinematografici però compaiono sui nostri schermi ogni giorno e di conseguenza il paragone è inevitabile. Purtroppo quindi è necessario ammettere che molti altri titoli hanno affrontato argomenti del genere meglio, senza luoghi comuni o becera retorica.
Cast
Al cast non possiamo dare colpe, sono un gruppo di ragazzi giovani adeguati alla storia. Sophia Lillis interpreta la protagonista Sydney e ricorda una giovanissima Maya Thurman-Hawke. Sofia Bryant (di una somiglianza notevole con Alexandra Shipp) veste i panni di Dina e Wyatt Oleff quelli di Stanley. Le loro interpretazioni non hanno recato danno alla serie, anzi tutti si sono dimostrati all’altezza di progetto anche migliore.
I am not okay with this: minimo sforzo minima resa
Questa serie contraddice il principio di Pareto, una delle più famose leggi economiche esistenti. In questo caso infatti lo sforzo minimo non è stato abbastanza per giungere il massimo risultato. Con un’eccessiva spavalderia i creatori della serie hanno posto la loro (presunta) astuzia al di sopra della perspicacia del pubblico. Pensavano che non ce ne saremmo accorti? Che ingenuità! Per le aziende è fondamentale l’equilibrio tra exploration (esplorazione, ricerca di prodotti nuovi) ed exploitation (sfruttamento, riproposta di prodotti simili a quelli già apprezzati in precedenza) e in questo caso l’equilibrio si è decisamente sbilanciato. Puntando sull’exploitation, Netflix ha tentato di conquistare gli spettatori con qualcosa che gli era già piaciuto in passato ma che stavolta non ha funzionato e il risultato è stato annoiarli e lasciarli con il dubbio di essere considerati un po’ sciocchi.