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Let go – La famiglia svedese in crisi e il viaggio terapeutico

Approda su Netflix Let go diretto da Josephine Bornebusch, dramma familiare svedese che si snoda on the road ed ambisce a toccare i cuori con temi universali, non particolarmente inediti, riassumibili in una famiglia esaurita vicina allo sfascio, capitanata da una madre factotum malata, riunita in un ultimo viaggio per lasciare in eredità la forza del legame reciproco.

Il risultato dell’operazione però resta in superficie. Let go, infatti, rimane intrappolato in una sorta di patina televisiva, non significante, scegliendo una narrazione super classica, prevedibilissima, detta e non fatta. Un’ultima gita insieme può rimettere in ordine il cuore di una famiglia che appare profondamente pericolante?

Pare sia una terapia arci-nota e molto utilizzata: isolare consanguinei al di fuori della loro routine, quando ritmi, ossessioni e punti di riferimento cambiano e riuscire magicamente a parlarci in modo aperto per la prima volta. Le menti si aprono, gli errori si cancellano, il perdono diventa facilissimo e le coscienze si scaricano. Sarà pure una parabola, ma ha contorni non approfonditi né circostanziati, che incrementano la sensazione finale di assistere ad una “roba da film”. Di verosimile in effetti c’è poco, nonostante la buona volontà che prodotti come Let go pur manifestano.

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Let go

Let go – Trama

Stella (Josephine Bornebush) è una madre stanca, sopraffatta dal rapporto logorato con il marito psicologo, con cui non riesce più a parlare e che risulta assente dai bisogni quotidiani familiari. Con la figlia maggiore, adolescente molto irrequieta, innamorata della pole dance, è conflitto costante: ogni cosa che Stella prova a fare, è fatta male, ed il rimprovero è dietro l’angolo.

Il figlio più piccolo è molto dipendente da lei: introverso e apparentemente scontroso, non si separa mai da una maschera di supereroe che si mette sul volto appena può. Quando Gustav (Pal Sverre Hagen), il marito di Stella, le confessa che vuole il divorzio, la donna decide di accettare ad una condizione: accompagnare tutti insieme la figlia maggiore alla sua gara di pole dance, cui la ragazza tiene molto, mostrarsi ancora per un’ultima volta una famiglia unita e poi accada quel che deve accadere. Particolare, quest’ultimo, non scontato per Stella poiché la donna è malata.

Let go – Recensione

Regista ed interprete principale di Let go, Bornebush disegna con cura e fin troppo ampie digressioni il personaggio di una madre devota, che cerca di tramandare la forza e l’indipendenza di scelta ai propri figli anche quando sente che nulla sarà più come prima, né il suo legame con il marito, né lei stessa.

Let go 2

Stella nel momento più cruciale e devastato della sua vita tenta di fabbricare ricordi solidi e fruttuosi per i tempi della mancanza, del dolore e del lutto. Travestendo il tutto da “armoniosa” scampagnata collettiva, che parte come un incubo relazionale e man mano si trasforma in un’esperienza complice e divertita alla riscoperta di cosa e di come veramente era quella famiglia prima che la vita, i silenzi, i caratteri cambiassero le cose.

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Uno scontro di vedute tra la necessità di controllo che rende Stella iperpressante, lucidissima ed impassibile sempre, crocevia marziale da cui devono passare tutti gli eventi della famiglia, figli compresi e il ‘Let go’, il lasciar andare, professato da Gustav. Quest’ultima è la filosofia che prevede di allentare i freni, lasciando a volte correre le cose che non si possono controllare, ma, soprattutto, quelle che si possono.

Lasciar andare ciò che si può controllare: la vita accade anche senza pronostici

La vita accade anche senza bisogno di pronostici, e sono quelli i casi in cui colpisce ed insegna di più, bisogna sapersi distaccare, bisogna poter delegare, affidarsi ad un’altra persona, in questo caso il proprio compagno, per portare a termine determinati compiti. Non si può fare tutto da sole, specie se si è deboli patologicamente; il rischio è lasciare fuori dalla vita familiare un pezzo fondamentale che la corrobora e la matura, in questo caso l’altra metà della mela, lo sguardo paterno.

Let go 3

Si potrebbe dire che Let go incornicia la storia di una donna svedese, prototipo per eccellenza della donna emancipata, vigile e di successo, che deve fare un passo indietro, lasciar spazio all’uomo, lasciar agire il padre, che prende responsabilità e costruisce il proprio stare nella famiglia, il suo essere genitore.

Stella può quindi darsi il diritto di fare retromarcia, di sbagliare, di non essere perfetta, di ammalarsi, anche di morire, se esiste un ‘accanto a lei’ e del recupero di questa dimensione di prossimità alla protagonista si occupa Let go. Perché insieme si è più forti, come viene ripetuto in maniera abbastanza didattica più volte nel film.

Sviluppo pigro e non inedito

Let go ha una durata superiore alla sua necessità, dice tutto quello che vuole dire, anche se non ce ne sarebbe spesso bisogno, trancia futuri e passati della storia, esclusa la breve apparizione dell’amante di lui e della suocera, concentrandosi su sensazioni ed umori contrastanti e cangianti all’interno della famiglia, specie nella sua protagonista. E’ la sua maturazione, l’ultimo baluardo da scalare, l’ultima prova dopo che figli e marito si accorgono del suo essere diversa e dell’importanza che il loro piccolo, maldestro, formidabile nucleo, ha.

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Let go 4

Lo sviluppo di Let go è pigro e canoninco, non varia, non sorprende, non prende bivi inaspettati, ma viaggia ad una velocità costante, con un tempo ritmo interpretativo che si addomestica alle stesse frequenze caute della narrazione generale e, di fatto, non si vibra mai.

Notiamo un traboccare cinematografico di storie sulla morte di un membro di una coppia, specie di una lei, sul dover restare superstiti, sulla difficoltà di gestire questo strappo nella relazione a due, nel lavoro e nel rapporto con i figli. Molto poco spesso, in queste opere recenti, trattare tale genere di storie si rivela veramente efficace: spesso si rischia di essere troppo espansivi, o troppo introversi; si barcolla tra l’algidità e lo sproloquio, a volte si rischia anche l’innocuità o l’assenza di problema come molte parti di Let go sembrano far vedere.

Abuso di tematiche simili per film che tradiscono il dramma restando in superficie

Non c’è crisi vera, si sente nell’aria una gelida ironia che non coinvolge, e non si avverte che qualcosa di importante si possa davvero perdere, come se la meta fosse più importante dell’iter; il che rende l’ascolto della storia secondario, ed in effetti la sostanza risultante del film è un’esecuzione omogenea, dimenticabile, senza personalità.

Let go 5

Alla Festa del Cinema di Roma ha debuttato in anteprima We Live In Time, tema simile, ma senza viaggio e senza famiglia disfunzionale alle spalle. In comune con Let go una malattia definitiva chiara fin da subito: anche qui ci si concentra sul lavoro, i dettagli, la volontà di lasciare un segno con la propria abilità, e il problema si perde, al punto di dimenticarsi che la protagonista bionda, bellissima e luminosa stia per morire.

Manca l’urgenza tangibile del problema in molti di questi recenti prodotti filmici su tema, nonostante in Let go il marito voglia il divorzio, la figlia punti dispoticamente i piedi, i figlioletto appaia sempre più strano e Stella stia per crollare definitivamente. Si ha come la sensazione che la soluzione comunque succederà, una sensazione anticipata di happy end dovuta ad assenza di rischio della posta in gioco.

Let go – Cast

In questo senso remano contro anche le interpretazioni principali: Hagen ha un volto ieratico, immobile troppo a lungo per farsi attraversare da fondati e convincenti cambi d’umore; la sua chimica con la protagonista stenta, non si avverte; è più stralunato dalla situazione che strumentale ad essa, quasi un pesce fuor d’acqua.

Dal suo canto la Bornebush è abbastanza piegata dalla stanchezza, ma mai a sufficienza da perdere il controlla di sé, della situazione, di ciò che deve dire, una specie di santa martire votata ad una causa che già sappiamo vinta o persa.

Let go è un’atto di volontà esecutivo, più che un viaggio emotivo, un compito senza coraggio e con poca inventiva e molta scimmiottatura lacunosa dello story-telling e dell’immaginario americano, con il risultato da un parte di accentrare l’attenzione sulla figura femminile e sulla mole di lavoro che deve sobbarcarsi, dall’altra di non concretizzarne mai l’umanità e la reale fragilità sottostante.

Let go – Trailer

PANORAMICA RECENSIONE

Regia
Soggetto e Sceneggiatura
Interpretazioni
Emozioni

SOMMARIO

Stella parte con tutta la sua famiglia per accompagnare l'irrequieta figlia maggiore ad una gara di pole-dance: la gita sarà l'occasione per rimettere in sesto un nucleo umano ad un passo dallo sbando. Anche le famiglie svedesi piangono: disfunzionali e non in ascolto, cercano nel viaggio comune una possibilità di redenzione. Soggetto non inedito, pigramente sviluppato, interpretato in modo omogeneo e sostanzialmente piatto, annoia nella sua prevedibilità e nel suo restare in superficie senza prendere mai bivi davvero scomodi. Resta su una superficie già vista.
Pyndaro
Pyndaro
Cosa so fare: osservare, immaginare, collegare, girare l’angolo  Cosa non so fare: smettere di scrivere  Cosa mangio: interpunzioni e tutta l’arte in genere  Cosa amo: i quadri che non cerchiano, e viceversa.  Cosa penso: il cinema gioca con le immagini; io con le parole. Dovevamo incontrarci prima o poi.

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