Lo spiazzo messo in atto da Luca Guadagnino con il suo Queer è la nota giustamente sorprendente che mancava nel concorso ufficiale per il Leone d’oro all’81.Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.
Adattamento dell’omonimo romanzo incompiuto di Borroughs degli anni cinquanta, lettura che a diciassette anni colpì l’immaginario fisico ed emotivo del regista in modo profondo ed indelebile, Queer ne è traduzione vivida, parzialmente ripulita e lungimirante, perché gli attribuisce una fine laddove la scrittura si interrompeva.
Scandaloso per quei tempi fin dal titolo, Queer (Diverso, Gay, Frocio) è una ricerca ad onde scosse e frementi dell’amore, l’amore radicale e totalizzante come ogni amore che racconta Guadagnino è e come lui stesso percepisce l’amore, il sentimento per eccellenza che non ammette scampo, né compromessi.
Con tutti i malintesi, gli inganni e le struggenti illusioni che questo viaggio emotivo comanda. Specie se a cercarsi senza riuscirci, capirsi, dirsi la verità, sono due uomini, in tempi che furono sospetti.
Queer – Trama
Negli anni Quaranta, Lee (Daniele Craig) vive in Messico dopo essere stato cacciato da New Orleans per problemi di droga. È un benestante, decadente e guadente assieme, letterato, forse scrittore, un dandy alla Wilde ma vestito alla messicana, un ripudiato elegante in panama chiaro, armato di pistola, che suda e profuma insieme.
Passa le sue giornate fumando, bevendo, drogandosi, tra amici che sono sulla sua stessa lunghezza d’onda, scrive e legge righe non meglio specificate che lo portano in un altrove benefico e soprattutto fa l’amore con altri uomini. O cerca di farlo. Nei suoi giri di giostra tra locali, più o meno alticcio, sempre predatore, i suoi occhi incontrano Eugene (Drew Starkey) e la sua ossessione comincia.
L’equilibrio squilibrato di Lee si frantuma, il cervello non pensa che a lui, non vede che lui, non segue che lui, un giovane della marina, dall’aria insondabile, di cui non si vede il fondo, né si percepisce con chiarezza se sia gay o meno. Tormento ed estasi, chiodo fisso nel cervello, sogno di ogni notte, Eugene è l’oggetto da possedere per riuscire a sopravvivere a questa dilaniante ed imbarazzante urgenza d’amore.
I primi tentativi portano ad un avvicinamento, ma il giovane è sfuggente, si accosta e si ritrae, i suoi reali pensieri sono inafferrabili. Lee tra un collasso da oppio ed una sbronza colossale, gli propone un viaggio nella foresta amazzonica, alla ricerca dello Yage (oggi nota come Ayauaska), una pianta di cui quale si dice possa manipolare la mente umana aprendola alla telepatia.
Così prende il via questo viaggio iniziatico che porterà le due anime sull’abisso di se stessi, abisso di fronte al quale lo sguardo deve procedere, non indietreggiare né tantomeno spostarsi altrove.
Queer – Recensione
Odissea lisergica, a compartimenti titolati, per l’opera più personale di Guadagnino, una proiezione di sé, dei moti conflittuali dell’amore omosessuale, delle difficoltà di intercettazione dell’altro in un contesto non dichiaratamente libero, un’esplorazione delle spudoratezze e di quel senso di preveggenza disperante eppure vitale ed esteticamente ineccepibile che pervade chi attraversa queste pulsioni.
Parabola dell’oggetto amato che è anche oggetto odiato, portato in palmo di mano e deplorato, conosciuto nelle sue bassezze, nei limiti, nell’ombra meretrice del baratto orfano di empatia, mentre si cerca di mantenere salda la spina dorsale e lucidi gli spiccioli di mente.
Impresa impossibile, cuore tachicardico, corpi che vomitano la qualunque, trapassassero almeno, ma no, la spina nel fianco batte ed arde.
Forse una pianta incredibile, una liana magica, un estratto di qualcosa di vegetale e recondito, di misterioso e pericoloso, da qualche parte nella foresta più proibitiva conosciuta, allora e per sempre, può fare dell’impossibile il possibile, cioè aprire le menti, forse lasciarle obbedienti, forse generare specchi riflessi delle anime che vanno ad abitarla.
E ritroviamo all’improvviso mangrovie di un verde incandescente, foglioloni da fumetto e capanna quasi da cartone animato con eccezionale sciamana pop, tutor spirituale che già sa, donna medico e comandante, che ride in faccia agli affanni delle persone innamorate, come il suo amico rivale, Dio.
Il momento della verità, l’essenza da carpire oltre l’allucinazione, il piede sullo scalino che non c’era per Guadagnino ha il perimetro di una performance di teatro fisico, un’ossatura di arti e pelli che si dimenticano dei propri confini ed interferiscono senza soluzione di continuità come serpenti del bene e del male.
I due corpi di amanti si scovano, si scrutano da dentro, danzano le proprie anime, compongono i propri demoni, in un buio fluo-pop di una disco-sottobosco.
La danza habitat naturale del corpo, ideale per esplorare i legami
La danza, l’azzardo che a molti è parso (come l’intera sezione amazzonica spesso e volentieri respingente per molti occhi critici), è sembrata invece a Guadagnino il modo naturale con cui esplorare la relazione tra la coppia-non coppia protagonista, un rapporto che vede la parola cedevole, inefficace, non trasparente, e laddove la parola mente, il gesto svela.
E la danza è architettura dei gesti, perché danza è ciò in cui siamo costantemente immersi, anche nella nostra non straordinaria quotidianità, i corpi si muovono sempre, disegnando nello spazio traiettorie, lasciando pezzi di sé in differenti modi ed in differenti luoghi; uno di questi pezzi abbandonati senza pudore è, a volte, il cuore. Ma noi, spesso, non ce ne accorgiamo.
Poca distanza dall’oggetto (amato) raccontato
Queer ha l’entusiasmo, la radicalità, la presa diretta di un’impresa onirica, segnante, da bambino ammalato di un sentimento che non sa gestire. A volte schematico, a volte grammaticale, con così poca distanza dall’oggetto (amato) da racchiudere tutto il mondo del film, in pochi volti, sempre quelli, ora al bar, ora in una camera d’hotel, ora su un letto, ora in mezzo alla giungla, ora chissà dove.
Non interessa troppo il contesto, forse un’America assassina come sempre, di corpi giovani e di belle speranze, per qualche guerra che si è dimenticato per cosa si sia iniziata, tanto tutto poco conta quando si è drogati d’amore.
Il sole, l’umidità, il corpo predatore, il porto ad un passo, a suggerire, parti! Un’aura di posticcio nella scenografia suggella un film girato tra le ricostruzioni di Cinecittà e gli splendori del Sud America, in un tributo di onestà all’immaginazione infantile che, un giorno, tra le pagine di una racconto “spinto” ebbe un’illuminazione.
Queer – Cast
Super cast in grande ascolto calamita frequenza cardiaca e visiva del pubblico. Craig è il modello generoso di Romeo in croce, attore che sfida i propri limiti, mette alla prova la sua solida fisicità conferendogli la punta di struggente e di impotenza necessare a far avverare l’ossimoro da pelle d’oca.
Ingiustamente ignorato in sede di premiazioni, Craig ha subito accettato il copione conferendo massima fiducia alla troupe e al regista, smanioso di mettersi sotto pressione, di alterarsi emotivamente e psicofisicamente, con il rigore della propria professionalità.
Accanto a lui Starkey è l’enigma perfetto, giovane sfinge scolpita nel sale, il cui compito è aprirsi a quella ferita che lui sa di possedere identica, ma che ancora non accetta.
Ottima anche la sciamana, Lesley Manville, attrice portentosa di indimenticate pellicole (da Segreti e Bugie, a Il filo nascosto fino ad arrivare a Disclaimer, la serie diretta da Alfonso Cuaròn, presentata fuoriconcorso in anteprima proprio a Venezia.81), presenza di un’intensità ed una nettezza insieme da capogiro, unico gancio femminile per l’altra faccia della luna, cui ambiscono con timore i due protagonisti.
Amore unica ferita insuturabile della vita, bypass della morte
E su Lee tremante, guscio di passione anziana ed ammalata, intossicata dalla dipendenza da ormai tutto ciò da cui si può dipendere, passano le galassie, i tempi, il liminare della mortalità che afferra in una parentesi le nostre spoglie, ma non ferma il desiderio eterno di un’altra persona. Semmai lo immortala, come in Morte a Venezia.
Queer è un parto onesto e stra-passionale, un quadrangolo irregolare colorato oltre i bordi, che sfora ed investe i sensi, sfugge alla digestione programmata e si conficca come una freccia che dice al mondo non tanto e non solo “Io amo così”, ma, più precisamente, “Si ama così”.