Il problema di raccontare un fatto di cronaca su grande schermo ha sempre due criticità: da una parte, a meno che non ci si trovi di fronte ad una reinterpretazione della storia (Tarantino docet), la fine è nota per cui la curiosità dello spettatore è almeno parzialmente blandita dal conoscere l’esito finale degli eventi; dall’altra si corre il rischio della letteralità storiografica, che appiattisce la creazione sulla trama e ci fa domandare se un buon documentario sul caso non avrebbe forse svolto un lavoro migliore. Ma Ron Howard sa come maneggiare la materia del realmente accaduto evitando entrambi gli errori. 13 Vite infatti, disponibile su Prime Video da pochissimi giorni, pur nella sua schematica semplicità, riesce nel compito complesso di farci appassionare ad un impresa eroica, di farci sfondare il pilota automatico del cinismo e credere nella parte vera e funzionale dell’abusato e mortificato concetto di solidarietà.
Di fatto Howard, già esperto di cronache storiche impegnative e galvanizzanti (Apollo 13, Rush, Frost/Nixon) doma la classicità strutturale, calibra la grancassa stancante del ritratto del superuomo americano, vola rasente la storia, resta leale ai suoi meccanismi strutturali senza esibirli e mantiene uno sguardo lucido, dettagliato ed emozionante al contempo.
13 vite – Trama
Cosi si svolgono le oltre due ore di girato con cui si presenta 13 Vite, lungometraggio ispirato all’incredibile salvataggio effettivamente accaduto di una squadra di calcio tailandese, tutta composta da giovanissimi adolescenti, che finiti gli allenamenti quotidiani, per festeggiare il compleanno di uno dei loro membri, si reca nella grotta di Tham Luang Nang Non, nel Nord del paese, per festeggiare insieme.
Qui, sorpresi da piogge monsoniche arrivate prima del previsto, il gruppo non riesce più a uscir fuori, rimanendo intrappolato: con loro il coach della squadra che aveva voluto seguirli.
Mobilitazioni nazionali ed internazionali per recuperare i ragazzini si sono susseguite negli incredibili e faticosissimi diciotto giorni che ci sono voluti per portare a termine la missione: sommozzatori della marina tailandese più a loro agio con salvataggi in mare che non in grotta, diecimila volontari di ogni nazionalità a cercare di deviare la valanga d’acqua che, infiltrandosi nel terreno, avrebbe reso ancor più pericolosa, se non impossibile, l’operazione stessa, e un gruppo di sub statunitensi specializzati in immersioni speleologiche, segnalati nella lista di “quelli bravi da chiamare” dal governo locale.
Tra questi ultimi ci sono John Volanthen (Colin Farrell), Rick Stanton (Viggo Mortensen), Richard Harris (Joel Edgerton) e Chris Jewell (Tom Bateman). Il tempo meteorologico gioca contro di loro, minacciando e scaraventando acquazzoni monsonici senza preavviso. Il capo politico responsabile deve portare a casa il risultato pena la decapitazione della propria carriera, i media premono accampati vicino alla grotta fangosa allagata a caccia di scoop oltre il velo di stretto riserbo destinato alle manovre, i genitori dei ragazzi attendono all’infinito in angoscia costante non sapendo nulla ed esorcizzando panico e paura con riti e preghiere di propiziazione locali.
I sub statunitensi mettono in campo ogni idea possibile per far rivedere la luce a quelle giovani anime, calcolando il rischio e, probabilmente, accettando anche di affidarsi alla fortuna, mentre il mondo resta con il fiato sospeso, come loro quando si immergono.
13 vite – Recensione
Teso, essenziale e funzionale 13 Vite restituisce lo spaccato di una difficile operazione di salvataggio locale diventata missione mondiale: se in un primo momento il problema era raggiungere gli intrappolati, e trovarne almeno uno vivo; una volta arrivati nella spiaggia sotterranea della grotta, dopo sei ore di immersione impegnativa tra cunicoli stretti e correnti subacque ed aver ritrovato la squadra incredibilmente viva, il problema diventa farli uscire tutti e tredici sani e salvi.
Dalla naturale diffidenza delle autorità e degli uomini della marina specializzati verso il team americano, si passa ad una leale e costante cooperazione. La solidarietà popolare raggiunge livelli epocali per una storia che scuote e commuove l’opinione pubblica: volontari da ogni dove giungono per dare una mano nella deviazione del flusso dell’acqua ed impedirle di penetrare negli inghiottitoi che conducono alla grotta, mentre i contadini dei campi sottostanti acconsentono a che la melma fangosa in eccesso venga riversata sui loro terreni, sacrificando il raccolto di un anno intero per la vita dei tredici ragazzini. Niente è dato per scontato: nè il raggiungimento dell’obiettivo, nè la conferma che tutta la squadra operativa partecipi alla rischiosa impresa.
Impressionante la resistenza delle 13 Vite di cui al titolo: ritrovati in sostanziali buone condizioni dopo oltre 10 giorni di abbandono al buio, senza luce, acqua, cibo e con livelli di ossigeno pericolosamente in calo, ringraziano inchinandosi secondo la loro tradizione, scolpiscono il cuore con una calma occidentalmente inconcepibile, una tenacia composta e l’afflato che li tiene insieme come squadra, in cui ciascuno aiuta l’altro per arrivare alla vittoria finale.
Merito del loro coach che infonde forza d’animo ai ragazzi, invitandoli a meditare per scacciare la paura, ombra inquinatrice delle menti. Un incontro commovente e stupefacente, esempio di come la realtà sia in grado di superare la fantasia e di quanto culture diverse possano aiutarsi e meravigliarsi reciprocamente.
Howard detta i momenti del salvataggio ripercorrendo ossessivamente le tappe del lungo percorso che intercorre tra l’inizio della grotta e il luogo del ritrovamento: i chilometri di distanza, il tempo di percorrenza, il giorno di intrappolamento a cui si è arrivati, il livello di ossigeno. Queste informazioni compaiono spessissimo come sovratitoli o sottotitoli all’azione, e mettono in evidenza le condizioni proibitive in cui sono state effettuate le immersioni, scandendo una cronaca puntuale, accattivante e drammatica.
Il punto di vista adottato è quello dei sommozzatori, mosche bianche e pesci fuor d’acqua in un luogo di cui non conoscono le asperità, le tradizioni popolari, folkloristiche e religiose e la lingua dalla sonorità sconosciuta. Eppure, nonostante circospezioni e distanze, qualcosa li coinvolge, e cresce in loro il senso di missione e di appartenenza: per le 13 vite miracolosamente illese nel cuore della terra che meritano salvezza, per i genitori appesi ad una speranza senza nome e alle loro offerte votive.
Nessuna sensazione, ma calcolo, lavoro, inventiva e presenza di spirito, per un’azione di salvataggio unica nella storia, che ha segnato in positivo il mondo ed il paese, narrata in modo essenziale e diretto, rifuggendo compiacimenti, patemi e pietismi di genere: lo spazio per l’apertura emotiva dei soccorritori è minimo e, forse per questo, più significativo; il finale ha il ritmo, l’atmosfera e l’energia di un rientro alla pacificante normalità, vuota, priva di pericoli, intatta e prosaica, come ogni cosa innocua.
13 vite – Cast
Il cast è composto da tailandesi in massima parte, tranne il gruppo di salvatori americani. Mortensen detta i controtempi ed il freno per gli entusiasmi o le proposte calcolate dei suoi compagni, con quella disaffezione apparente che lo rende severo e determinante caposaldo della missione, avvocato del diavolo, di difficile scoramento, fautore dei propri interessi, non schioda mai i piedi da terra (anzi “dall’acqua”).
Farrell è il padre di famiglia, ragionevole ed empatico, che tiene unita la squadra: suo è il primo stordimento emotivo, nel momento in cui rischia di “perderne uno”. Consapevolezza della vicinanza della morte, anche per il fuoriclasse Bateman, che tocca da vicino il terrore del fallimento e ne esce scosso, mentre il medico Edgerton incrocia la vita salvata delle 13 vite, con la morte del padre, avvenuta proprio durante il periodo in cui lui era impegnato ad inventarsi un modo per salvare i ragazzi.
Semplice ed efficace, 13 vite sfida l’omogeneità della cronaca, la claustrofobia delle immagini, la ripetitività delle operazioni, la durata canonica di un film, la retorica d’oltreoceano, per rimandarci un esempio sano di happy end, che cura le ferite del mondo e ci ricorda ancora una volta come a fare la differenza non è, o non è più, di cosa si parla, ma di come ne si parla.